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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

venerdì 8 aprile 2011

20. La pienezza dei tempi

«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Galati  4,4-5). «[Cristo] alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso»  (Ebrei  9,26).

Soprattutto nel periodo di Natale la liturgia ci ha ripetuto questa espressione, diventata abituale nel linguaggio cristiano, ma che non per questo è anche facilmente comprensibile. Il suo significato è legato ad una concezione del tempo tipica della Bibbia, che presenta la storia dell’umanità come un cammino, nel quale si collocano momenti particolarmente importanti che devono portare a raggiungere un traguardo finale. Si è convinti che in questi momenti, anticipati da una lunga preparazione, Dio si manifesti in modo straordinario e unico.

Non si tratta però di uno sviluppo lineare indefinito, ma di un crescendo che, dopo aver raggiunto il suo culmine, non aggiunge più nulla di sostanziale se non la realizzazione di quanto Dio ha compiuto a favore dell’umanità. In altre parole, la nostra fede si presenta con un inizio (la vocazione di Abramo), con un punto centrale (l’incarnazione del Figlio di Dio) e con le conseguenze che noi siamo chiamati a sviluppare (la vita della Chiesa).

Seguendo questo schema, potremmo rappresentare la storia dell’umanità con una clessidra che ha il suo punto centrale nella persona di Gesù. Tutto ciò che lo ha preceduto tendeva a Lui; tutto ciò che segue deriva da Lui. Anche nella divisione della storia, comune nei nostri paesi cristiani, è evidente questo aspetto, in quanto collochiamo gli avvenimenti avanti Cristo (a.C.) o dopo Cristo (d.C.).

Ma perché proprio allora?

Quanto abbiamo detto non spiega ancora perché questa centralità sia stata individuata proprio nel periodo storico che conosciamo e che l’evangelista Luca espone con abbondanza di riferimenti all’inizio del suo vangelo (Luca 2,1-2;  3,1-2). Perché in quegli anni e non qualche tempo prima o dopo? Perché Dio ha scelto quei giorni, quella regione della terra, quel popolo particolare?

Riguardo al popolo, la risposta è semplice: solo all’interno del popolo ebraico si era sviluppata la riflessione sugli interventi di Dio nella storia, finalizzati a comunicare agli uomini il piano di salvezza dell’umanità. Al di fuori dell’ambito ebraico il discorso sulla necessità di redenzione dell’uomo dai peccati non stava in piedi, almeno nei termini che noi conosciamo attraverso la Bibbia.

In tutte le religioni è presente la coscienza che la divinità deve essere placata con l’offerta di sacrifici, per espiare le offese arrecate dagli uomini. Ma solo nella religione ebraica questa intuizione assume i caratteri ben precisi che ci offre la Bibbia e che sono stati la base della riflessione cristiana per spiegare quanto era avvenuto a Gesù di Nazaret.

Le idee di Messia, di salvatore, di sacrificio espiatorio, di profeta, di legislatore, di rappresentante diretto di Dio non sono spiegabili se non in riferimento ad una cultura che aveva assimilato questi concetti, anche se li spiegava in modi non perfettamente identici. Pensiamo solo al valore attribuito dall’Antico Testamento al sangue, considerato sede della vita e versato durante i sacrifici sull’altare (che rappresentava Dio stesso) e asperso (cioè spruzzato) sul popolo per indicare che la divinità  e l’uomo partecipavano della stessa vita.

In quegli anni queste convinzioni erano maturate all’interno del popolo ebraico. Le discussioni sull’interpretazione da dare a certi aspetti della fede (vedi ad esempio le posizioni contrastanti a proposito della risurrezione, tra Farisei e Sadducei) testimoniano il radicamento di una tradizione religiosa salda nei suoi principi e non scalfita da scelte particolari. Da questo punto di vista, l’interpretazione cristiana dei fatti riguardanti Gesù di Nazaret si inserisce perfettamente nel pluralismo ideologico proprio di quel periodo e non avrebbe forse determinato il distacco violento tra le due religioni se non avesse dovuto essere così radicale.

Pienezza dei tempi, significa dunque che il popolo ebraico si trovava nelle condizioni ideali per comprendere l’irruzione di Dio nelle vicende umane, cosa che effettivamente è avvenuta nei numerosi Ebrei che hanno dato origine alla Chiesa cristiana.

E perché non dopo?

Nel 70 d.C. l’esercito dell’imperatore romano Tito distrusse Gerusalemme compiendo uno dei massacri più sanguinosi che la storia ricordi. I superstiti del popolo ebraico vennero dispersi in tutto l’impero e rimasero separati in piccole comunità. Continuarono a riflettere sulla loro storia ma non poterono più vivere in pieno la loro religione. Essendo stati privati del Tempio e dei sacerdoti non fu più possibile offrire sacrifici.

Il tempo opportuno per capire la vita e la missione di Gesù era passato. Dopo il 70 d.C. non si presentavano più le condizioni che avevano permesso di spiegare l’opera di salvezza realizzata dal Figlio di Dio. Il Salvatore «doveva» vivere e morire in quel preciso momento storico, pena la non significanza della Redenzione.

Giovanni Boggio (Biblista)


IL PIANO DI DIO:
METTERE CRISTO
AL CENTRO DELLA STORIA

In [Cristo, Dio] ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi
per opera di Gesù Cristo,
secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia.
[Dio] l'ha abbondantemente riversata su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito
per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.
(Efesini 1,4-10)








19. La parola che salva

«In principio era il Verbo [=la Parola] e il Verbo [la Parola] era presso Dio e il Verbo [la Parola] era Dio» (Giovanni 1,1). Sentiremo proclamare questa pagina del Vangelo di Giovanni in occasione delle celebrazioni di Natale.

L’evangelista, dopo aver affermato che la Parola di Dio esiste da sempre in quanto coincide con Dio stesso, la presenta nella sua qualità di Parola Creatrice (tutto è stato fatto per mezzo di lui v. 3) e di Parola che insegna all’uomo come comportarsi per piacere a Dio (In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini v. 4). Infine l’evangelista giunge all’affermazione più sorprendente: questa Parola (espressione perfetta di Dio) diventa un essere umano, indicato con l’espressione tipica della Bibbia per sottolinearne la debolezza, cioè “carne” (e il Verbo [la Parola] si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi v. 14).

Troviamo qui i due estremi, Dio e l’essere umano, il Creatore e la creatura, che si fondono in un’unica realtà: il Figlio di Dio che ha voluto condividere dal di dentro l’esperienza dell’umanità. Ma questa iniziativa di Dio, che assume in sé la debolezza umana, ha per scopo di comunicare all’uomo la grandezza di Dio. Chi accoglie la Parola che lo ha creato e che gli insegna come vivere, ha la possibilità di realizzarsi pienamente come essere umano ed anzi di superare questo traguardo diventando anch’egli “figlio di Dio” (A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati vv. 12-13).

Il linguaggio della Bibbia, dipendente strettamente dalle immagini e molto meno da concetti astratti,  esprime attraverso termini concreti come “generare”, “carne e sangue”, “figlio”, “nome” quello che noi indichiamo in altro modo, che ci è più congeniale ma che forse è meno ricco di significati.

La storia della salvezza
La nostra aspirazione più profonda è di essere felici, di realizzarci in modo pieno, di raggiungere un ideale che ognuno di noi coltiva nel proprio animo. Se abbiamo fede in un Dio Creatore, dobbiamo pensare che anche Lui, nel darci l’esistenza, abbia avuto per ciascuno di noi un ideale, un modello, che ci ha affidato da costruire insieme a Lui continuando la sua opera creatrice.

Il nostro dramma è dovuto al fatto che l’ideale di Dio non sempre coincide con quello che noi sogniamo. Se riusciamo a far nostro il progetto che Dio ha su di noi, possiamo contare sul suo aiuto e siamo sicuri di poterlo realizzare. Ma purtroppo sperimentiamo in noi delle spinte che vanno in direzione opposta a quella voluta da Dio.

La storia che la Bibbia ci narra è appunto il racconto di quanto Dio ha fatto per aiutare l’umanità a capire e ad accettare il piano di Dio per raggiungere la felicità. Gli studiosi danno a questo racconto il nome di “Storia della salvezza”, dove “salvezza” non significa altro che “diventare in pieno esseri umani”.

È in questa linea che la Bibbia parla di “Dio salvatore” e di un “Salvatore” inviato da Dio per essere lo strumento di questo grande progetto. Il “Salvatore” della Bibbia è lui stesso il primo “salvato”, cioè pienamente realizzato nella sua umanità in quanto ha sempre e soltanto fatto quanto Dio si aspettava da lui. Per questo motivo può essere il salvatore di quanti lo accettano come esempio e guida nelle proprie scelte di vita. Lui c’è riuscito: chi lo imita è sicuro di arrivare allo stesso traguardo, è sicuro di “salvarsi”.

Gesù: il Salvatore
Per noi cristiani questa svolta decisiva nella storia dell’umanità si è attuata con la nascita e con tutta la vicenda umana di Gesù di Nazareth. In lui noi vediamo il modello perfetto dell’umanità realizzata secondo i progetti di Dio. L’ideale che Dio aveva in mente nella creazione dell’umanità si è concretizzato in Gesù, uomo perfetto. In lui Dio si compiace perché da lui ha avuto una risposta assolutamente corrispondente a quanto si aspettava.

Ma anche noi possiamo considerarci non più come perdenti, come dei falliti nelle nostre povere esistenze. In Gesù l’umanità può presentarsi davanti a Dio a fronte alta, consapevole che “uno di noi ce l’ha fatta” ad essere come Dio ci aveva pensati. Gesù è il nostro rappresentante presso il Padre come pure è la presenza del Padre all’interno delle vicende di tutta l’umanità.

Con il battesimo Gesù ci trasforma nella sua stessa persona e se noi ci sforziamo di imitarlo nelle nostre scelte ci presenta al Padre come se fossimo lui stesso: pienamente realizzati in Lui.

Gesù è per il cristiano espressione della volontà creatrice di Dio, è colui che ci comunica la volontà del Padre celeste e ci insegna con l’esempio come attuarla, è colui che diventato uomo perfetto si mette alla testa dell’umanità salvata per presentarla a Dio.
Il “Verbo diventato carne” segna dunque il vertice di tutta la Bibbia e sintetizza in sé tutto quanto Dio ha voluto comunicarci perché potessimo essere noi stessi. Gesù Cristo, il Salvatore, è tutti noi perché possiamo diventare come Lui “figli di Dio”.

Se avete avuto la pazienza di seguire queste riflessioni (piuttosto difficili, lo ammetto) penso che vi sarete accorti come il Vangelo non stia in piedi da solo se non è fondato sull’Antico Testamento. Non si può capire nulla della persona di Gesù se la si separa dalla sua radice naturale: il popolo ebraico da cui proviene e di cui ha condiviso la fede.

Giovanni Boggio (Biblista)

 


LA PAROLA DIVENNE CARNE

[1] Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, [2] in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. [3] Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, [4] ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato (Dalla lettera agli Ebrei, 1-4).

[14] Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe … [16] Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. [17] Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. [18] Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova (Dalla lettera agli Ebrei, 2,14.16-18).





18. La parola che insegna

«Quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente»  (Deuteronomio  4,6).
Questa è solo una delle tante affermazioni della Bibbia che testimoniano la coscienza degli Ebrei di essere il popolo più fortunato di tutti: non perché sia il più numeroso, il più ricco, il più potente ma perché è stato istruito da Dio stesso su ciò che deve fare o non fare per piacere a Lui.

I popoli antichi erano quasi ossessionati dal desiderio di conoscere la volontà dei propri dèi. Da questa conoscenza facevano derivare le proprie fortune, convinti com’erano che le sorti degli uomini dipendevano totalmente dal favore della divinità. Si spiega così il proliferare degli oracoli di varia specie, tutti accomunati dallo stesso intento di comunicare agli uomini i desideri degli dèi per poterli soddisfare e così ingraziarsi le potenze superiori.

Anche il popolo ebraico condivideva queste convinzioni e aveva gli strumenti per soddisfare queste esigenze. I profeti erano considerati i portavoce di Dio. Con linguaggio moderno potremmo forse paragonarli agli “addetti stampa”, incaricati da Dio stesso di comunicare le valutazioni che Dio dava sul comportamento del suo popolo ed impedire così che si prendessero decisioni non condivise da Lui.

Anche i sacerdoti avevano il compito ufficiale di indicare, sia ai re che a tutto il popolo, le scelte da compiere nelle più svariate circostanze per non mettersi contro la volontà divina. Questa grave responsabilità derivava dal fatto che i sacerdoti erano i custodi e gli interpreti autorevoli di quella che anche noi oggi, seguendo la tradizione ebraica, indichiamo come la “TORAH”.

“Legge” o “Insegnamento”?
Gli Ebrei facevano riferimento alla “Torah” intendendo soprattutto quel celebre testo (che noi chiamiamo“i dieci comandamenti”) e che era anche indicato semplicemente come “le dieci parole”. Scritto, secondo la tradizione, su due tavole di pietra, era conservato in una cassa di legno pregiato chiamata “arca dell’alleanza”, custodita nel Tempio di Dio. Soltanto i sacerdoti potevano toccarla e, quindi, accedere direttamente al testo di origine divina.

La storia raccontava che Mosè aveva scritto quelle dieci parole su ordine di Dio per indicare al popolo come doveva comportarsi. Erano dunque “parole” che noi definiremmo “pesanti”, non tanto perché scritte su pietra ma perché esprimevano una volontà superiore dalla quale dipendeva la vita e la morte, la felicità del popolo o la sua rovina.

Se Dio aveva lasciato nelle creature un segno della sua presenza mediante la parola creatrice, che tutti gli uomini potevano leggere e conoscere, nella Torah si era rivolto esclusivamente al popolo che aveva scelto come sua proprietà esclusiva. Più che una “legge” da osservare, Dio aveva confidato ai suoi figli una serie di “insegnamenti” che li aiutassero a risolvere nel modo migliore i casi della vita. Lo scopo della Torah non era quello di mettere degli ostacoli sul cammino e punire chi non li avrebbe superati, ma di indicare la strada giusta perché il popolo vivesse in armonia con il suo Dio.

La stessa etimologia del termine ebraico lo fa derivare da un verbo che significa “insegnare”. Solo col passare del tempo e con l’aumentare di “insegnamenti” che avevano sempre più la forma di leggi impositive raccolte in diversi “codici”, si è giunti a dare alla Torah il senso che a noi appare come ovvio e univoco.

Le conseguenze psicologiche di questo slittamento di significato sono state drammatiche. Invece di rallegrarci per avere una “parola di Dio che insegna come vivere felici” l’abbiamo sentita come un’insopportabile intrusione di un legislatore lontano dai nostri interessi, che vuole imporre i suoi capricci immotivati per rovinarci la vita.

Siamo lontani dalla gioia, addirittura entusiasmo, con cui la Bibbia presenta la Torah vista come la somma di tutti i benefici di cui Dio ha ricolmato il suo popolo e che ha portato un autore sacro a scrivere: «Dio ha scrutato tutta la via della sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo, a Israele suo diletto. Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini. Essa è il libro dei decreti di Dio, è la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato» (Baruc 3,37-38; 4,1.4).

Anche in questo caso, ci rendiamo conto del valore straordinario della parola, capace di modificare radicalmente il senso della realtà.



Simhat torah: La gioia della Torah
«… la strada è bloccata da duecento persone, giovani e vecchi, che volteggiano, saltellano e si tengono per mano… Disseminate qua e là alcune delle persone che danzano stringono tra le braccia grandi rotoli di pergamena arrotolati su se stessi e coperti da drappi di seta. Questa notte gli ebrei danzano con la Torah… in una quasi euforia per ringraziare Dio del dono della Legge. […] Per gli ebrei la Legge non è un fardello, un impaccio, o un ostacolo a vivere una vita pienamente umana e vitalmente spirituale. La Legge (Torah) è una condizione per essere umani. È un dono generoso che Dio concede al suo popolo semplicemente per amore. Ma c’è poco da meravigliarsi che molti cristiani abbiano difficoltà con questo concetto. […]Mi auguro che quei cristiani che ancora rappresentano l’ebraismo cin l’immagine di una figura piegata e oppressa, schiacciata al punto da crollare sotto il peso eccessivo della Legge, possano trascorrere una serata nel turbinio di una Simhat Torah in strada. Questi danzatori allegri sono tutt’altro che prostrati. Sembrano librarsi in aria».
(Da Le feste degli Ebrei, di Harvey Cox, Mondadori, pag. 93-94)



Si può mettere un qualcosa di spiegazione della modifica nell’impostazione della pagina e della scomparsa del commento al vangelo domenicale a partire dall’Avvento. 

Giovanni Boggio (Biblista)


 





17. La parola che crea

Gli autori della Bibbia erano convinti che Dio governava il mondo ed anzi che era stato lui a creare ogni cosa. Essi rappresentavano Dio sotto sembianze umane e pensavano che agisse secondo gli schemi dell’agire dell’uomo. Nei testi più antichi
conservati nella Bibbia non si ha timore di attribuire a Dio mani, braccia, naso, bocca. Gli studiosi chiamano queste descrizioni “antropomorfismi”, cioè modi di dire ricalcati sui comportamenti umani. Anche quando, in epoche più recenti, il modo di rappresentare Dio si era raffinato in senso spirituale si è continuato ad usare il solito linguaggio descrittivo. Anche noi continuiamo a parlare del “volto di Dio”, affidiamo qualcuno che ci sta a cuore “alle mani di Dio” pur sapendo benissimo che si tratta di espressioni figurate, da non intendersi nel senso materiale delle parole.

Nell’Antico Testamento, per affermare la totale dipendenza del mondo dalla volontà di Dio, si usano due forme descrittive, ispirate ai modi con i quali l’uomo realizza qualcosa. Il modo più usuale è quello dell’artigiano o dell’operaio o, se si vuole, dell’artista che con le mani costruisce gli oggetti. Nel capitolo 2 della Genesi è proprio questo il modo con cui si presenta Dio che “plasma” l’uomo e gli animali, “costruisce” la donna, “pianta” gli alberi del giardino.

Nel capitolo precedente della Genesi si afferma che il mondo è stato realizzato da Dio secondo il modo di agire dei re e dei padroni che si guardavano bene dallo sporcarsi le mani con gli oggetti materiali e che pure avevano tutto ciò che volevano: bastava che manifestassero la propria volontà ai sudditi, con un comando espresso attraverso la parola.

Se la parola del re aveva tanto potere da ottenere ciò che indicava, molto più doveva valere la parola di Dio. Ecco allora l’autore del primo capitolo della Genesi che attribuisce alla “parola di Dio” l’esistenza di tutto l’universo. “Dio disse” è il ritornello che introduce la descrizione di ogni opera compiuta da Dio nell’ambito dei sei giorni in cui il racconto inserisce la creazione del mondo.

In questo racconto, a volte la parola “pronunciata” da Dio ha effetto immediato: «“Sia luce”… e fu luce». Altre volte invece Dio dà un ordine che viene eseguito da qualcosa che già esiste: «”La terra produca germogli”… La terra produsse germogli». Questo secondo modo di ottenere ciò che si vuole era caratteristico dei re, che però non potevano avere, con la sola parola, cose inesistenti o che i sudditi non fossero in grado di costruire.

Solo la parola di Dio ha il potere di dare l’esistenza alle cose materiali e agli esseri viventi, gli unici che sono in grado di riprodurre altri esseri come sé. Ma per affermare che solo Dio è in grado di comunicare la vita, l’autore biblico attribuisce ad una “benedizione” divina la capacità straordinaria di “crescere e moltiplicarsi”. La vita, ci dice la Bibbia, ha la sua origine solo da Dio, l’unico che la può donare, l’unico che la può riprendere. L’uomo è solo uno strumento di cui Dio si serve per realizzare il suo progetto sull’intero universo, totalmente dipendente da una “parola” divina.

Giovanni Boggio (Biblista)

16. Il valore della parola

Chi ha partecipato all’incontro diocesano di pastorale svoltosi alla Quercia nel mese di settembre, forse ricorda il piccolo esperimento che ho proposto sul valore evocativo, per non dire creativo, della parola. Essa è capace di creare simultaneamente nell’animo di centinaia, migliaia di persone, gli stessi sentimenti, le stesse immagini di cose reali o
anche inesistenti, di evocare volti o avvenimenti, di suscitare reazioni piacevoli o sgradite, di muovere folle immense a vivere emozioni di ogni tipo.

Bisogna però dare alla parola (detta o letta) il tempo e il modo di penetrare nell’animo attraverso i sensi perché possa produrre i suoi effetti meravigliosi. Una parola che ci investe con un fiume di altre parole non può lasciare traccia di sé: ci colpisce ma non ha il tempo di suscitare le reazioni a cui è destinata.

La Bibbia è fatta di parole umane attraverso le quali Dio ha voluto comunicarci quanto è necessario per conoscere il suo progetto sull’umanità e su ciascuno di noi. È questa la fede che ha accompagnato gli Ebrei nella loro lunga storia e che noi Cristiani abbiamo ricevuto da loro e che con loro condividiamo.

La parola della Bibbia ha tutte le caratteristiche della parola umana, anche se le supera per la peculiarità tutta sua di trasmettere la volontà di Dio. Come le parole umane, anche quella di Dio può esprimere tutte le sfumature che conosciamo e che sfruttiamo per la nostra comunicazione tra uomini. È estremamente riduttivo cercare nelle parole della Bibbia solo qualche aspetto delle sue infinite capacità espressive.

Eppure è quanto si fa quando consideriamo la Bibbia come un manuale tecnico, senza sentimenti, senza emozioni, senza poesia, impegnato soltanto a fornire “istruzioni per l’uso”, da consultare quando non sappiamo più che cosa fare, aspettandoci la risposta preconfezionata per risolvere i nostri piccoli o grandi problemi.

Gli studiosi di linguistica hanno individuato tre aspetti fondamentali della parola umana. Essa serve, in primo luogo per informare, in secondo luogo per esprimere i sentimenti di chi parla, in terzo luogo per suscitare una risposta nell’ascoltatore. In ogni comunicazione umana possiamo trovare uno di questi aspetti, che non mancano nemmeno nella parola di Dio.

Si capisce allora quanto possa essere inconcludente cercare nella Bibbia solo delle “informazioni” sulla storia, su personaggi, su culture antiche, su religioni del passato e in base a queste “notizie” impostare la nostra vita di fede. La Bibbia è “anche” informazione (da interpretare con metodo serio, scientifico), ma ci permette anche di conoscere i sentimenti di chi ha scritto quelle pagine e di cogliere gli inviti rivolti ai primi ascoltatori o lettori e, attraverso di loro, anche a noi. Dio ci parla con tutta la ricchezza del linguaggio umano. Tocca a noi scoprirla e gustarla.

Ma per farlo si deve creare un ambiente, esterno e soprattutto interno, che permetta alla parola di esprimere le sue potenzialità, così da coinvolgerci con le suggestioni molteplici di cui è portatrice.

Giovanni Boggio (Biblista)





15. Elezione = Privilegio?

Abbiamo già avuto modo di accennare alla storia delle parole e ai cambiamenti del loro  significato nel corso dei secoli. Una di queste parole, oggi molto usata, è: “elezione”. La troviamo in molti campi della nostra vita. Sono eletti i deputati al ...
Parlamento, al Senato, alla Presidenza della Repubblica, alla guida delle Società e delle industrie fino alle varie miss nei mini o maxi concorsi.

In alcuni casi è evidente il collegamento tra “elezione” e “privilegio”. Miss Italia ha il privilegio di essere invitata alla TV, di essere intervistata dalla stampa, di fare film e di ricevere onori e soldi in quantità, e nessuno se ne scandalizza. In altri casi invece, come nella politica, il legame suddetto è rifiutato sdegnosamente. Tutti i politici si presentano come desiderosi unicamente del bene degli elettori e parlano volentieri dei “sacrifici” a cui si sottomettono “per il bene del paese” che rappresentano. Poi sappiamo come vanno le cose…

Anche la Bibbia parla spesso di elezione di qualcuno, addirittura da parte di Dio. Abbiamo visto, nell’ultimo numero di VITA, che Israele è definito “il popolo eletto”, con le difficoltà che questa attribuzione comporta.

Ma la Bibbia parla anche di singoli uomini “eletti” da Dio, tanto che questo termine si può considerare una vera “categoria biblica”, cioè un modo di interpretare i casi della vita e di spiegare tutto come dovuto ad interventi continui di Dio nelle vicende umane.

Così, chi comanda è stato scelto da Dio, chi denuncia le cose storte è inviato da Dio e parla a suo nome, chi ha capacità superiori alla media è stato eletto da Dio “per compiere qualcosa di straordinario”. Ecco la chiave di interpretazione della categoria “elezione” nella Bibbia. Dio sceglie qualcuno non per isolarlo dagli altri e metterlo in condizione di privilegio, ma per affidare un incarico specifico, generalmente gravoso e pieno di responsabilità. E quando qualcuno approfitta della situazione in cui Dio lo ha posto, viene giudicato molto severamente ed escluso dall’incarico che aveva ricevuto.

Saremmo quasi portati a vedere l’elezione nella Bibbia come qualcosa di pericoloso, di tanto impegnativo da essere rifiutato. Proprio come si narra di Mosè che, scelto da Dio per liberare il popolo oppresso dal Faraone, dopo aver presentato parecchie difficoltà, risponde al Signore: “Manda chi vuoi mandare” (Esodo 4,13), cioè: “Grazie mille, ma lasciami in pace”.

In questa prospettiva di elezione come “servizio” reso a Dio nei fratelli, scompare ogni aspetto odioso nelle scelte compiute dal Signore che, come si dice in altri passi della Bibbia, non fa “preferenza di persone” (Siracide 35,12) ma stabilisce i suoi progetti per il bene di tutti.

Il giudizio severo emesso contro gli “eletti” a guidare il popolo è motivato proprio dal fatto che “hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge” (Ezechiele 34,8). Perciò “Dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto” (Ezechiele cap. 34,10).

Su questo discorso sarebbe opportuno che riflettessero tutti coloro che sono stati “eletti” a qualsiasi incarico di responsabilità, nella società civile come anche in quella religiosa.

Giovanni Boggio (Biblista)



14. Il Popolo eletto

Tutti sappiamo che il popolo eletto è Israele. Proprio per questo motivo, forse molti lettori avranno provato un senso di fastidio leggendo il titolo. La nostra sensibilità, abituata ai discorsi sull’uguaglianza di tutti gli uomini, rifugge dalla stessa idea di una “elezione” da parte di Dio, idea che noi associamo strettamente a quella di “preferenza”, e quindi di esclusione di tutti gli altri.
Le vicende politiche degli ultimi decenni giocano poi un ruolo non piccolo nella nostra…
avversione ad un titolo che sembra giustificare pretese da noi giudicate assurde o per lo meno anacronistiche. Se poi aggiungiamo il diminuito senso religioso nella nostra cultura e la non conoscenza dell’origine di questo titolo che affonda nella Bibbia, abbiamo tutti gli elementi per spiegare il nostro rifiuto. E invece…

Invece dall’otto al dieci settembre u.s. una cinquantina di studiosi dell’Antico Testamento si sono incontrati a Foligno per discutere proprio sul tema dell’elezione, non solo all’interno della Bibbia ma anche nelle culture del mondo antico, contemporaneo alla nascita e crescita del popolo ebraico.

Impossibile sintetizzare in poche righe gli argomenti trattati. Tra le tante idee presentate mi sembra interessante notare che la convinzione di essere un popolo superiore agli altri è abbastanza comune nella storia antica (il convegno si è fermato a quella!…). I Greci chiamavano “barbari” tutti gli altri popoli, i Romani si consideravano i favoriti dagli dèi per imporre il loro impero. Stesso convincimento troviamo in Egitto, in Assiria, nell’impero di Babilonia e in quello persiano.

In questi casi si trattava di grandi potenze, anche militari, nel pieno del loro sviluppo. L’attribuirsi una missione assegnata dagli dèi proponeva grandi ideali e dava forza per raggiungerli.

Ma il caso del popolo ebraico è assolutamente anomalo, in questo panorama di imperi a dimensione mondiale. Israele è sempre stato un popolo quasi insignificante dal punto di vista militare, politico ed economico. Inoltre è sempre stato soccombente di fronte ai nemici che di volta in volta lo aggredivano. La Bibbia abbonda di affermazioni di questo genere che testimoniano la coscienza di Israele di essere “il più piccolo di tutti i popoli”, come afferma il Deuteronomio (7,17), maltrattato ed oppresso da tutti i vicini.

Come si spiega allora la nascita in Israele dell’idea di essere il popolo preferito dalla divinità? Non c’era nessun elemento umano per giustificare questa affermazione, e la Bibbia lo afferma continuamente. Non è soddisfacente spiegare il fatto come una rivalsa del debole contro il forte. Forse ciò può avvenire una volta. Ma quando questo atteggiamento si ripete per secoli, in condizioni sempre più drammatiche, diventa improbabile qualsiasi spiegazione razionale.

La Bibbia spiega la scelta attribuita a Dio ricorrendo a diversi motivi: la presenta come frutto del suo amore gratuito ed incomprensibile, come desiderio di avere un popolo che gli sia fedele, ma soprattutto come una missione da compiere verso tutti gli altri popoli. Poiché il Dio di Israele è il Dio unico, si interessa di tutti gli uomini, ma li raggiunge attraverso l’opera di alcuni.

È questo il significato che la Bibbia dà all’elezione di Israele: essere lo strumento per portare tutta l’umanità alla conoscenza e all’adorazione del Creatore universale. In questa luce l’elezione non è più sinonimo di preferenza e di esclusione, ma è la chiamata ad una responsabilità verso Dio e verso l’umanità. Questo argomento è troppo importante anche per noi cristiani. Ne riparleremo ancora.

Giovanni Boggio (Biblista)


13. Alla ricerca di Davide

Quando leggiamo il racconto di un avvenimento, sia attuale che del lontano passato, abbiamo spesso la sensazione di trovarci di fronte al fatto stesso e ai personaggi che lo animano. Specialmente se il racconto è fatto da un bravo scrittore che sa rendere vivace la narrazione, riviviamo  i diversi momenti delle vicende e ci immedesimiamo con i …
protagonisti condividendo i loro sentimenti ed emozioni. È questo il miracolo dell’arte, che trasfigura il mezzo espressivo rendendolo capace di creare una realtà sempre nuova, ogni volta che ne veniamo in contatto.

Questo meccanismo psicologico ci permette di godere all’infinito qualsiasi opera d’arte. Partecipando al momento creativo dell’artista, attraverso la sua intuizione espressa per mezzo di segni (parole, disegni, colori, suoni, gesti), ci troviamo come immersi in realtà che non esistono più (o che addirittura non sono mai esistite) ma che rivivono dentro di noi con tutta la loro carica espressiva.

Soltanto il ragionamento ci permette di non scambiare la realtà artistica (emotiva) con la realtà effettiva (quella che viviamo ogni giorno). Ed è al ragionamento che dobbiamo affidarci, dopo aver vissuto le ricostruzioni degli artisti, per non vivere di sogni o di ricostruzioni fantastiche.

Questo discorso vale per ogni racconto, anche per quelli che troviamo nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. È un’affermazione che sorprenderà qualche lettore, ma è una conseguenza logica di quanto abbiamo  detto prima. Quando, per esempio, leggo la storia di Davide non mi trovo di fronte al grande re, ma al racconto delle vicende che lo riguardano. Per essere ancora più precisi, non mi trovo di fronte ai fatti della sua vita, ma al ricordo che quei fatti hanno lasciato nella mente della gente e che lo scrittore ha deciso di raccontare per motivi che gli stavano a cuore. Lo stesso discorso vale per ogni personaggio o avvenimento che troviamo raccontato nei libri sacri (o in qualsiasi altra opera letteraria).

Per rimanere in campo biblico, dobbiamo renderci conto che davanti agli occhi abbiamo solo un testo, scritto per un determinato scopo, da un autore che sceglie tra i ricordi personali o raccolti da una tradizione popolare, per comunicare il significato che avvenimenti o personaggi hanno per la fede del popolo di Israele. In qualche misura il discorso vale per il Nuovo Testamento, anche se i tempi tra fatti/personaggi e racconto scritto sono molto più ristretti.

Le conseguenze di queste considerazioni sono molto importanti. Prima di tutto perché ci evitano l’equivoco piuttosto frequente, di chiedere, di fronte ad un fatto raccontato dalla Bibbia che ci sembra inverosimile, se sia vero oppure no. Posta in questo modo, la domanda non ha senso. Infatti non mi trovo di fronte ad un fatto, ma ad un racconto. Mi devo chiedere per prima cosa perché quel racconto è nato, da che cosa è stato originato, perché è stato ritenuto tanto importante da essere tramandato fino a noi, che significato aveva per chi lo ha scritto.

Per concludere in modo sintetico: tra noi che leggiamo la Bibbia e i fatti che racconta ci sono tante realtà intermedie. Per primi i protagonisti dei fatti, poi il ricordo che essi hanno conservato, il motivo che li ha spinti a ricordare e a raccontare, il passaggio dei racconti da una generazione all’altra, la raccolta da parte di qualche scrittore delle memorie di un passato che, nelle sue intenzioni doveva aiutare a capire il presente.

A questo punto ci chiediamo: dov’è finito Davide? Forse abbiamo l’impressione di avere smarrito il contatto con la sua persona, ma certamente siamo in grado di capire meglio perché la Bibbia ci parla di lui.

Giovanni Boggio (Biblista)

 

 

 

12. L’attesa del Messia

Quando noi cristiani parliamo del Messia, ci riferiamo spontaneamente alla persona di Gesù di Nazareth. È un dato costante e comune della nostra fede, che vede in Gesù la realizzazione delle promesse fatte da Dio al popolo di Israele attraverso i profeti.
Con una sintesi biblica e teologica impressionante, riferiamo a Gesù tutte le caratteristiche..

che nel corso dei secoli sono state attribuite alla figura del messia. Ogni epoca storica, a seconda delle esigenze del momento, ha visto in questo personaggio del futuro la realizzazione dei suoi sogni di grandezza, di rivincita sugli altri popoli, di liberazione dai nemici, di attuazione del regno di Dio.

Queste idee, nate per motivi contingenti, hanno continuato ad essere presenti nel popolo di Israele anche quando le situazioni storiche si erano modificate talmente da rendere quasi un’utopia il desiderio di un cambiamento nelle condizioni di vita di chi continuava a credere in Dio.

Così la speranza che il messia futuro fosse un discendente della famiglia di Davide ha sostenuto la fede del popolo durante tutto il periodo in cui la dinastia davidica  ha regnato in Gerusalemme, cioè dal 1000 circa avanti Cristo fino all’esilio a Babilonia, terminato nel 539 a.C. Ma con la fine dell’indipendenza e la scomparsa  dalla scena politica della casa regnante di Davide, come si faceva ancora a sperare in un “liberatore” proveniente da una famiglia che aveva portato tutto il popolo alla rovina, fino a rischiare la sua scomparsa? L’attesa di un messia di stirpe regale ebbe un brusco crollo di popolarità, ma continuò in gruppi di fedeli all’ideale monarchico.

Nei periodi di crisi politica e religiosa il popolo aveva trovato un sostegno in alcuni uomini che si erano presentati come inviati da Dio ad incoraggiare gli sfiduciati e a mantenere viva la speranza. Erano i profeti, nei quali la gente vedeva i propri salvatori. In questo periodo il messia veniva pensato con le caratteristiche di un profeta, almeno nei circoli religiosi che si ispiravano alle grandi figure profetiche del passato.

Ma dal punto di vista politico, il potere si era concentrato nelle mani di alcune grandi famiglie di sacerdoti. Queste erano diventate l’unica autorità e l’unico punto di riferimento al quale legare le speranze di riconquistare una propria indipendenza dal potere delle nazioni straniere dalle quali il popolo di Dio era governato. Nel gruppo di Ebrei che contestavano l’autorità di Gerusalemme che si era formato a Qumran, presso le sponde del Mar Morto, si aspettava un messia che avesse le caratteristiche di un sacerdote, veramente fedele a Dio.

Accanto a queste attese ne era sorta un’altra che presentava il messia con caratteristiche soprannaturali, pur appartenendo alla realtà umana. Il titolo dato a questa nuova figura di messia era “figlio dell’Uomo”, descritto come il Signore della storia, padrone di tutte le vicende umane.
Negli scritti del Nuovo Testamento tutte queste caratteristiche del messia sono attribuite a Gesù, anche se non in modo omogeneo e costante. In realtà al tempo di Gesù sembra che nessuno si aspettasse un messia che riassumeva in sé tutti questi titoli. C’erano gruppi diversi, ognuno dei quali pensava ad un messia che avesse l’una o l’altra di quelle caratteristiche. Ciò può spiegare l’accoglienza riservata a Gesù e anche il rifiuto della sua persona da parte di chi non vedeva in lui il tipo di messia che aveva in mente.

Queste ipotesi sono state illustrate durante un convegno di studio che si è svolto a Venezia ai primi di luglio e al quale ho avuto modo di partecipare. Il convegno si è articolato attorno al titolo di “Figlio dell’Uomo” presente nel Nuovo Testamento e soprattutto in alcuni scritti apocrifi sorti nell’ambiente vicino a Qumran.

Giovanni Boggio (Biblista)