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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 13 maggio 2017

PROPAGANDA ELETTORALE ANCHE NELLA BIBBIA?


Viviamo in clima di propaganda elettorale permanente. Tra elezioni politiche, amministrative, locali, nazionali, europee che si svolgono a casa nostra o nei paesi vicini siamo sempre in attesa di vedere quanti saranno i votanti e come sarà l’esito del voto. Né ci accontentiamo dei risultati finali, perché abbiamo inventato gli exit-poll per intuire mezz’ora prima del comunicato ufficiale come saranno i risultati definitivi. Se aggiungiamo qualche referendum di vario genere completiamo un quadro che dimostra un’inquietudine di fondo rivelata dalla frenesia del cambiamento.

mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RICERCA DI UN DIALOGO

Penso di non essere stato l’unico ad essere piacevolmente sorpreso nel sentire pronunciare parole come “pace” e “dialogo” in una città come Il Cairo a pochi giorni di distanza da atti di terrorismo che l’hanno colpita causando decine di morti e di feriti. È accaduto durante la breve visita del papa in Egitto alla fine di aprile. Sentirle dalla bocca del papa non meraviglia. Francesco ci ha abituati a
questi discorsi che possiamo considerare scontati. Ma sentirle dette dal rappresentante di una grande fetta del mondo musulmano e da un capo di Stato proveniente dagli alti gradi dell’esercito, fa un certo effetto. Non le hanno dette a tutto tondo, è vero, però mi è sembrato di cogliere un desiderio sincero di superare gli ostacoli che impediscono ancora la realizzazione di quello che continua ad essere un bel sogno, come dimostrato dagli attentati avvenuti nei giorni immediatamente successivi in paesi vicini.

mercoledì 26 aprile 2017

CONFUSIONI PERICOLOSE


         Abbiamo visto quanto sia facile scambiare le immagini con la realtà che rappresentano. Ma l’identificazione è anche fonte di grossi equivoci soprattutto quando si tratta di questioni importanti. Per non cadere nella trappola, prima di tutto è necessario capire a quale tipo di immagine ci troviamo di fronte e qual’è il motivo per cui ci viene presentata. Prendiamo l’esempio dalle figure presenti nei segnali stradali. Lo scopo per cui sono realizzati è quello di informare il viaggiatore sulle condizioni della strada e soprattutto di mettere in guardia da eventuali pericoli. Per ottenere questo si ricorre a disegni stilizzati secondo schemi convenzionali che non hanno nessun riscontro preciso con la realtà che viene rappresentata in forme astratte. Nessuno si aspetta di trovarsi davanti due bambini che si tengono per mano come quelli del segnale. E anche se ne vede uno solo, oppure una frotta vociante e disordinata che gli attraversa la strada, sa che deve frenare anche se l’immagine che ha visto prima è diversa dalla realtà che vede davanti a sé.

venerdì 14 aprile 2017

QUESTA NON È UNA SEDIA

       Era una battuta di padre Nazareno Taddei quando iniziava le sue conferenze sul cinema. Alla sorpresa degli uditori, rispondeva precisando che era la foto di una sedia ma non la sedia. In altre parole le foto, il cinema, i disegni rappresentano la realtà ma non sono la realtà. La presentano come la vede o la ricorda (o l’immagina) il fotografo o l’artista ma si tratta sempre di un sostituto della “cosa”, mai della cosa in se stessa. La rappresentazione può essere più o meno fedele ma non si potrà mai sovrapporre esattamente all’originale tanto da identificarsi con quello. La preoccupazione di p. Taddei riguardava l’aspetto dell’educazione alla lettura delle immagini della vita presentate dal cinema.

giovedì 6 aprile 2017

NUOVA ALLEANZA VS. ANTICA ALLEANZA?




“Accetto il Vangelo, ma non l’Antico Testamento”. Sembra incredibile, ma si sentono e si leggono ancora valutazioni di questo tipo da parte non solo di semplici battezzati ma anche da chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine sacro. I motivi del rifiuto sono ancora e sempre i soliti. L’Antico Testamento – si dice – è pieno di inviti alla violenza provenienti da Dio stesso, è costruito su racconti fantastici, ricorre a storie mitologiche, non ha nessun legame serio con la storia, rispecchia una cultura che ignora le scienze, ecc. e quindi è inaffidabile. Soprattutto presenta un’immagine di Dio inaccettabile da noi che crediamo nel Dio Padre buono e misericordioso che ci ha presentato Gesù nel Vangelo.


Questo quando parlano i credenti. I non credenti non esitano a mettere anche il Nuovo Testamento insieme all’Antico e alle religioni che hanno ispirato, nel bidone dei rifiuti. Tolta di mezzo la Bibbia, rimane poi solo il Corano verso il quale si professa ammirazione e stima, spesso per motivi di opportunismo politico o per timore di rappresaglie da parte di islamici fanatici.

Non sono bastati i documenti prodotti dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II riguardanti i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento e tra Cristianesimo ed Ebraismo, a togliere pregiudizi consolidati da secoli di insegnamenti fuorvianti e tendenziosi. Né è bastata la Shoà a far aprire gli occhi per vedere a quali aberrazioni può condurre l’ignoranza guidata dal fanatismo sia religioso che laico, anche se questo si camuffa da scienza. Vedi gli scienziati che si sono venduti al nazismo o quelli che ancora oggi sono al servizio dei produttori di armi protetti dai vari governi.

Che cosa dicono i Vangeli?

Ma lasciamo da parte il discorso politico – che conosco solo dall’esterno, da quanto pubblicato dai giornali – per entrare in quello biblico che mi è più consono. Possibile che i sostenitori dei vangeli contrapposti alla Bibbia ebraica non si accorgano che le loro letture sono contrarie a quanto scritto proprio in quei vangeli che essi esaltano? Nel vangelo di Giovanni è riportata un’affermazione fatta da Gesù verso la conclusione di una disputa con i Giudei: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Giovanni 5,39). Dunque l’autore del quarto vangelo è convinto che le Scritture – cioè la Bibbia ebraica – non solo alludono ad un Messia futuro ma forniscono dei dati precisi che ne permettono l’identificazione nella persona di Gesù.

Anche nel vangelo di Luca troviamo la stessa convinzione espressa dal viandante misterioso che si affianca ai due discepoli lungo la strada per Emmaus: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Luca24,25-27). Il viandante si farà riconoscere come lo stesso Gesù che per far capire il senso della sua vita ha fatto ricorso a quei libri che noi chiamiamo Antico Testamento.

È comune ai quattro vangeli il riferimento ai testi sacri conservati dagli Ebrei per spiegare quanto era avvenuto nella vita di Gesù che nel suo insegnamento si aggancia sempre a quanto “è scritto” anche quando sembra contraddirlo. L’evangelista Matteo riporta un’affermazione di Gesù che sintetizza tutta la sua vita: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Matteo 5,17-18).

Oltre ai vangeli anche gli altri libri del Nuovo Testamento sono disseminati di citazioni della Bibbia ebraica, anche se sono riportate non in ebraico ma in greco, la lingua usata per l’antica traduzione conosciuta come i Settanta(LXX). Ciò dimostra quanto fosse radicata la convinzione del legame profondo che unisce le due raccolte di libri ritenuti sacri dai cristiani che non mostrarono alcun imbarazzo di fronte a testi che solo in seguito sono stati percepiti come scandalosi o per lo meno inopportuni.

Quando il cinema combina guai

Se a questa ipersensibilità (che a volte ha raggiunto la pruderie) si aggiunge la difficoltà oggettiva di leggere i testi antichi nel loro ambiente di origine e non in quello dei lettori successivi, si capisce anche la posizione della Chiesa cattolica che è arrivata a proibire non solo la lettura ma addirittura il semplice possesso della Bibbia. Accanto a queste chiusure basate su pregiudizi si è sempre mantenuto un contatto con i libri sacri nel loro complesso, anche se è stata data la preferenza ad alcuni. Così è avvenuto per il libro dei Salmi, forse il più letto e amato tanto da diventare il modello della preghiera, anche perché lo stesso Gesù vi ha fatto ricorso nel momento più drammatico della sua vita prima di morire in croce (Matteo 27,46; Marco 15,34).


Altri libri dell’Antico Testamento sono entrati nella nostra cultura per alcuni racconti particolarmente suggestivi, grazie anche alla letteratura, al cinema e alla TV. Purtroppo le esigenze dello spettacolo hanno portato a dare un rilievo eccessivo ad episodi che già nei testi biblici erano stati presentati con toni enfatici, com’era l’uso di tutti gli storiografi del mondo antico. Il risultato di questa operazione – dovuta principalmente a motivi commerciali – è stato un deprezzamento del testo biblico, compreso quello dei vangeli, visto come una raccolta di favole per bambini.

È stata la dimostrazione che Antico e Nuovo Testamento sono uniti in modo strettissimo tra di loro e che la disistima nei confronti di uno, prima o poi coinvolge anche l’altro. Mi verrebbe voglia di ripetere le parole di Gesù riguardo al matrimonio: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Matteo19,6).

Concludo ricordando brevemente che senza la Bibbia ebraica non si capisce che cosa significa Messia, peccato, sacrificio, redenzione, salvezza, Dio Padre, popolo di Dio, alleanza… e si potrebbe continuare con qualità che attribuiamo alla nostra Chiesa come se fossero cose scontate. Ma non lo sono, e voler tagliare le radici che ci mantengono in vita è condannare a morte la nostra fede.

Cosa che mi auguro non rientri nelle intenzioni di chi contrappone il Nuovo al Testamento Antico che, se letto con metodo veramente scientifico, non è quella raccolta di storielle più o meno ridicole e poco edificanti come pensano molti. Però non è nemmeno un repertorio intessuto soltanto di buoni esempi da riprodurre in fotocopia, come vorrebbero i buonisti alla ricerca di letture rilassanti.


giovedì 30 marzo 2017

IL CONVEGNO DELLA DISCORDIA


        Il convegno di studi organizzato dall’ABI a Venezia per il mese di settembre continua a richiamare l’attenzione e le critiche del mondo ebraico. Il 22 marzo il quotidiano La Stampa ha pubblicato un lungo articolo di Lisa Palmieri-Billig, rappresentante in Italia e presso la Santa Sede
dell’AJC (American Jewish Committee), nel quale si ripropongono le proteste dei rabbini italiani con altre considerazioni sul tema del convegno. Molto spazio viene dato ai documenti della Chiesa cattolica riguardanti i rapporti con l’Ebraismo a partire dal Concilio Vaticano II. Le aperture auspicate dalle dichiarazioni ufficiali però – secondo la giornalista – sarebbero spesso disattese nell’insegnamento dalla catechesi ai bambini fino alle facoltà teologiche e nelle omelie, comprese
quelle di papa Francesco. Il convegno di Venezia rientrerebbe in questa linea e le dichiarazioni di stima, amicizia e collaborazione con gli ebrei rilasciate dal presidente dell’ABI al quotidiano Avvenire, non sarebbero sufficienti per cancellare l’impressione che nulla sia cambiato nei pregiudizi diffusi nei confronti del popolo ebraico.
       L’articolo è duro anche nel denunciare la poca “scientificità di metodo” nell’affrontare temi prettamente biblici come la “gelosia” di Dio, l’elezione di Israele, l’universalismo, la molteplicità di significati, lo stretto rapporto con la storia. La conclusione può esprimere il contenuto e il tono di tutto l’articolo: “Forse la cosa di cui c’è più bisogno oggi è di rispolverare la conoscenza della storia ebraico-cristiana e di chiedere che seminaristi, studenti e professori universitari diano una ripassata approfondita ai documenti rilevanti”.
       Nel mio post precedente mi ero limitato a spiegare i motivi che hanno costretto a modificare il titolo del convegno senza entrare nel merito dei contenuti. Mi premeva soprattutto evidenziare l’importanza delle parole e dell’uso che se ne fa. L’articolo de La Stampa mi offre l’opportunità di riflettere su qualche argomento forse trascurato o sottovalutato, come  

La molteplicità di significati

Giustamente l’articolo afferma che la religione degli ebrei si fonda sulle molteplici interpretazioni date nel corso dei secoli alle parole della Bibbia ebraica. Evidentemente il riferimento è alle diverse scuole rabbiniche, tanto differenti nell’interpretare le parole quanto ostinatamente unite nel rispettare la loro forma. Ma questo metodo è già presente nella stessa composizione della Bibbia ed è dovuta in gran parte proprio alle caratteristiche della lingua ebraica, relativamente povera di radici che possono assumere significati diversi a seconda del contesto in cui sono inserite.
In uno dei post precedenti avevo giocato con due radici ebraiche lkm e shlm, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Può sembrare un gioco enigmistico ma è il fondamento del metodo che porta i rabbini a scoprire significati reconditi di parole e frasi tutti ugualmente degni di rispetto. La diversità non deve essere considerata causa di contrapposizione ma piuttosto come arricchimento di un patrimonio comune che ognuno può accrescere con il suo contributo.
Come si intuisce, è un metodo rischioso se porta a considerare la propria scoperta come unica verità assoluta o, al contrario, se conduce al relativismo. Soltanto una visione globale della realtà, che unifichi le mille facce dell’universo è in grado di creare quel mondo ideale a cui la Bibbia dà il nome di “attesa messianica”.
Dispiace vedere come questo principio elementare non sia stato seguito nella pratica da nessuna religione, nemmeno – si deve riconoscere – dagli stessi ebrei che lo hanno teorizzato e applicato alla loro esperienza di fede e, forse un po’ meno, alla loro vita politica e sociale e meno ancora nei rapporti con altre religioni e popoli. Non ci si deve meravigliare di queste incongruenze, fanno parte della vita reale e rientrano nella lista dei desideri e dei buoni propositi. 


Le “ambivalenze” della Bibbia

Si sente spesso accusare la Bibbia – ma si sottintende “Antico Testamento” – di essere piena di violenza attribuita a ordini precisi dati da Dio. È infantile, ingenuo e controproducente negare che ci siano pagine intere che descrivono, anche con un certo compiacimento, episodi di stragi e massacri di intere popolazioni eseguiti su comando di Dio. Ci sono, ma bisogna capire e spiegare il perché di quei racconti e confrontarli con quelli analoghi di altri popoli. Si vedrà facilmente che era un modo comune di narrare le imprese epiche dei propri soldati e condottieri per esaltare la grandezza del popolo e del dio che lo proteggeva.
La Bibbia non fa eccezione ma, accanto a testi decisamente violenti ne propone altri che esortano a cercare la pace e l’armonia non solo all’interno del popolo ebraico ma anche nei rapporti con gli altri popoli. L’autore del Salmo 137 riempie di sdegno il lettore moderno quando proclama “Beato chi afferrerà” i bambini dei babilonesi “e li sbatterà contro la pietra” (Salmo 137,9). Però non possiamo ignorare l’esortazione che il profeta Geremia rivolge ai Giudei deportati prigionieri a Babilonia: “Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Geremia29,7).
L’invito di Geremia è stato seguito dai deportati tanto fedelmente da trasformare l’odiata Babilonia in una nuova Terra promessa dove per un millennio gli Ebrei hanno vissuto in pace sviluppando la loro cultura e studiando la propria religione. 


Il “Popolo eletto”

 L’espressione dà fastidio a molti e viene considerata la causa di una presunta superiorità sugli altri popoli che gli Ebrei avrebbero nel loro DNA. Questa convinzione sarebbe evidenziata dai comportamenti nella vita quotidiana dove l’ebreo ci tiene a distinguersi da tutti nel modo di vestire, nel cibo, nella fedeltà a tradizioni incomprensibili nell’ambiente in cui vive. Anche altri gruppi etnici sono riconoscibili per caratteristiche simili ma la cosa sembra diventare un problema soprattutto quando si tratta di israeliti. Come si spiega questa attenzione mirata ad un solo gruppo?
La risposta può venire dalla nostra storia, ma affonda le radici nella Bibbia dove abbondano prescrizioni molto rigide riguardanti l’abbigliamento, i cibi, i gesti da compiere, i rapporti da evitare, i tempi da rispettare, le formule delle preghiere. L’osservanza di tutte queste norme costituisce l’identikit di chi appartiene al popolo che Dio si è scelto tra tutti i popoli.
Nel libro dell’Esodo (19,5-6) è riportata l’affermazione attribuita a Dio: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”.  È tutto spiegato: Dio si interessa di tutti i popoli della terra ma vuole mettersi in contatto con loro attraverso un popolo che sia disposto a fare da tramite, ad essere come un ponte che unisce l’umanità a Dio. Universalismo e particolarismo non sono in contrasto ma complementari. La scelta è fatta in funzione di una missione da compiere e ciò richiede una forte identità, l’assunzione di responsabilità, la rinuncia a comodi privilegi di cui altri possono godere.
Verso la fine dell’articolo la Palmieri-Billig scrive: “Nella comprensione di se stessi, per gli ebrei essere ‘scelti’ o ‘eletti’ implica l’obbligo e il dovere di essere da esempio, per l’umanità intera”. Mi sembra che sia l’interpretazione corretta del testo di Esodo 19 che ho citato e che trova conferma in tutti i racconti di vocazione riguardanti i profeti: Dio li chiama per inviarli alla gente. Può apparire una contraddizione se riassumiamo in una battuta: “Dio chiama il profeta per mandarlo via”. 
Vorrei concludere queste riflessioni con una domanda che rivolgo prima di tutti ai cristiani e poi, con grande rispetto e simpatia, anche ai fratelli Ebrei confidando di essere accolto grazie al principio del pluralismo e della diversità delle idee alla ricerca della verità. Quanto è diffusa e condivisa la consapevolezza di aver ricevuto l’incarico “di essere da esempio per l’umanità intera”?
Ricordo che la Bibbia ebraica ci offre un esempio, costruito in modo magistrale, di un profeta scelto e inviato da Dio a comunicare un suo messaggio al popolo considerato il grande nemico. Giona – è lui il protagonista di questa storia emblematica – dapprima rifiuta platealmente l’incarico e poi quando è costretto ad eseguirlo, lo fa stizzito e indignato verso quel Dio che lo aveva “eletto”.
Nella nostra storia forse ci sono stati troppi emuli del profeta riottoso che dava alla “gelosia” del suo Dio un’interpretazione di comodo, smentendo nei fatti quanto proclamava con le parole.

venerdì 17 marzo 2017

QUANTO PESANO LE PAROLE

        Se l’ABI – Associazione Biblisti Italiani – voleva pubblicizzare il convegno di studi sull’Antico Testamento che si svolgerà a Venezia il prossimo settembre, si deve riconoscere che ci è riuscita. È bastato comunicare il titolo del convegno per suscitare un coro di proteste da parte del mondo ebraico italiano che si è sentito coinvolto e messo sotto accusa dal tema proposto per lo studio e le
successive discussioni da parte dei biblisti che interverranno. Ma perché la semplice enunciazione di un argomento su cui si invitava a riflettere ha messo in subbuglio i nostri fratelli ebrei? La risposta è semplice e può sembrare anche banale. Il tema del convegno era stato presentato con parole non appropriate, o meglio, non opportune. Forse potevano anche essere giustificate con qualche riserva e sottigliezza interpretativa, ma l’impressione che suscitavano alla prima lettura era decisamente contraria alle intenzioni che mi auguro avessero gli organizzatori del convegno.

“Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria” era il tema del convegno che figurava nel dépliant spedito ai soci dell’associazione e che si poteva leggere anche nel sito dell’ABI. Quattro parole sono state percepite dai lettori ebrei come offensive nei loro confronti, a partire da quel “Israele” messo in evidenza senza alcuna precisazione, cosa che poteva indurre ad identificare tutti gli ebrei di ogni epoca con i seguaci di una religione definita “elitaria”, cioè esclusiva e ritenuta superiore ad ogni altra. C’era poi quel “geloso” attribuito a Dio, che faceva pensare ad un sentimento meschino, egoistico, contrario all’immagine di Dio a cui siamo stati abituati. Infine l’”ambiguità” abbinata alle coerenze consolidava il pregiudizio diffuso di un comportamento subdolo attribuito agli ebrei per coprire le loro trame nascoste ed arrivare così al dominio del mondo.
Inoltre la generalizzazione del termine “Israele” faceva pensare allo stato che porta quel nome con tutte le conseguenze politiche legate ai conflitti di questi ultimi decenni. Ancora, l’espressione “Dio geloso” che è tipica della Bibbia, sparata lì con noncuranza, poteva destare non solo meraviglia ma addirittura il rifiuto della stessa Bibbia, o almeno di quello che noi cristiani indichiamo come Antico Testamento. In realtà l’ambiguità denunciata riguardava piuttosto il titolo dato al convegno che poteva essere facilmente interpretato in chiave per lo meno antisionista se non antisemitica.

Il Presidente dell’ABI non è Ponzio Pilato
Come si vede, ce n’era abbastanza anche per temere un risveglio di quell’antisemitismo che continua a serpeggiare in certi ambienti occidentali e che si manifesta violento in quelli medio orientali. Come biblista socio dell’ABI sono sicuro che gli organizzatori del convegno di settembre non intendevano offendere nessuno e lo hanno dimostrato subito con un’operazione semplicissima: rendere evidente per tutti che cosa volevano raggiungere con i loro studi. Da bravi biblisti, si sono ricordati delle parole che Pilato ha rivolto ai capi dei sacerdoti ebrei che protestavano per la scritta che aveva fatto affiggere sulla croce di Gesù, rifiutando di modificarla: “Quello che ho scritto, rimane scritto”, e non hanno voluto imitarlo.

E così, sono corsi ai ripari modificando il titolo incriminato rendendolo più comprensibile anche ai non addetti ai lavori e dando ragione delle loro scelte. Ecco allora il nuovo titolo, che dice le stesse cose del primo ma in modo diverso. “Popolo di un «Dio geloso» (cf. Es 34,14): coerenze e ambivalenze della religione dell’antico Israele”. Le virgolette al “Dio geloso”, indicano che si tratta della citazione di un testo che si trova nel libro dell’Esodo al capitolo 34 nel versetto 14 e anche in altri libri della Bibbia, come suggerisce il “cf.” che invita a “confrontare”. Le ambiguità sono state sostituite dalle “ambivalenze”, termine che si può applicare senza difficoltà a tante altre affermazioni della Bibbia. L’aggettivo “antico” applicato ad Israele evita di identificarlo non solo con lo stato omonimo attuale con tutti i risvolti politici annessi ma anche con tutti gli ebrei sparsi nel mondo. Infine la precisazione che si tratta della religione e non di una ideologia sgombra il campo da ogni altra interpretazione.
Non si è trattato di un make up di comodo per nascondere qualcosa ma della scelta delle parole giuste per comunicare in modo corretto le proprie idee, cosa che non era avvenuta nella prima formulazione del tema. Potrà forse sembrare un episodio insignificante, un refuso un po’ esteso. In realtà ha messo in grande evidenza il valore e l’importanza delle parole che possono pesare come macigni e produrre effetti disastrosi se usate in modo indebito. I biblisti dovrebbero saperlo visto che il loro mestiere è capire e spiegare la “Parola” di Dio presente nella Bibbia che attribuisce al cattivo uso delle parole umane le divisioni tra i popoli originate ai piedi della torre di Babele (Genesi 11,1-9).

Morire per due spighe o per quattro ceci…
La Bibbia attribuisce alle parole la capacità di produrre le realtà che indicano, quando sono dette da Dio: “Vi sia luce! E vi fu luce!” (Genesi 1,3) o anche quando appaiono scritte in modo misterioso per preannunciare la fine dell’impero babilonese (Daniele capitolo 5). Addirittura la pronuncia difettosa di una parola poteva causare la morte dell’incauto, rivelando la sua appartenenza alla tribù nemica. La parola così devastante è “scibbolet” (in ebraico significa “spiga”) che se veniva pronunciata “sibbolet” (secondo l’uso di una tribù) denunciava in modo indiscutibile l’origine del malcapitato. Secondo il racconto popolare riportato dalla Bibbia, furono quarantadue mila le vittime cadute nella trappola linguistica (Giudici12,1,7).
"Per un punto Martin perse
la cappa..." e se
avesse sbagliato tutta
la frase?
Una vicenda analoga è raccontata anche a proposito dei cosiddetti “Vespri siciliani” quando l’identificazione dei francesi da massacrare avvenne attraverso la pronuncia della parola “ceci” storpiata in modo incorreggibile dalla lingua d’oltralpe.
È risaputo che nella Bibbia i nomi delle persone non sono considerati semplici etichette ma esprimono la qualità di chi lo porta e la sua funzione nella società. Questa convinzione ha avuto come conseguenza l’uso di sostituire con il termine “Signore” quello che era considerato il nome di Dio, per evitare di profanare la sua stessa persona. Anche per noi cristiani il nome è importante quando si tratta di quello dato a Gesù che, pronunciato in ebraico significa “Salvatore” (cf. Matteo1,21), riferimento che si è perso nelle nostre traduzioni.
L’autore dell’Apocalisse arriva a promettere l’ingresso nella città celeste, che sarà chiamata con un “nome nuovo”, a quelli che a loro volta avranno ricevuto un “nome nuovo” che nessuno conoscerà tranne l’interessato. Potremmo parlare di “password” per il paradiso?
Ci sarebbe materiale abbondantissimo nella Bibbia per presentare il tesoro prezioso costituito dalle parole che a volte usiamo con tanta indifferenza e superficialità. Il titolo del convegno organizzato dall’ABI ha dimostrato quanto siano pesanti le nostre parole.

PS. Avevo concluso questo post quando ho avuto in mano il numero del quotidiano “Avvenire” di oggi 17 marzo che a pag. 22 pubblica l’intervista al presidente dell’ABI. Ho visto con soddisfazione la conferma della stima e solidarietà verso i fratelli ebrei ma non ho trovato la spiegazione del perché è stato corretto vistosamente il titolo e la presentazione del convegno.

lunedì 27 febbraio 2017

PREGATE PER I VOSTRI PERSECUTORI (Matteo 5,44)



È difficile… Ma dobbiamo imparare a farlo, perché si convertano”.

Lo ha riconosciuto papa Francesco domenica 19 febbraio commentando il brano del vangelo di Matteo letto durante la celebrazione della messa in una parrocchia della periferia di Roma. Penso che tutti i sacerdoti nell’omelia abbiano evidenziato la stessa difficoltà condivisa senza alcun dubbio da tutti i presenti e anche da chi è rimasto a casa. Ma credo che la condivisione si limiti alla difficoltà del perdono e non alla necessità di pregare per i nemici, cosa a cui non siamo abituati.


Ricordo la sorpresa dei presenti quando alcuni anni fa a seguito di un attentato ho invitato a pregare per gli attentatori spiegando che le vittime non avevano bisogno delle preghiere di suffragio essendo certamente accolte da Dio che, nella Bibbia sta sempre dalla parte dei più deboli. Invece erano gli assassini che dovevano cambiare modo di pensare e di vivere se volevano essere oggetto della misericordia. Purtroppo in questi ultimi anni ho dovuto ripetere troppe volte l’esortazione a pregare per i delinquenti che danno l’impressione di essere refrattari alle nostre preghiere.

Ma chi sono questi nemici?

Forse c’è qualcosa che non funziona nel nostro modo di pregare, forse non mettiamo l’indirizzo giusto, forse pensiamo solo agli esecutori materiali delle uccisioni dimenticando che spesso sono essi le prime vittime di una violenza che ha dei mandanti insospettabili. Non c’è bisogno di smascherare complotti, riunioni segrete o vertici di politici o banchieri miranti a destabilizzare gli ordinamenti sociali. Ci sono stati in passato e certamente esistono anche oggi, ma ormai vivono di rendita. Sono riusciti a creare una mentalità largamente diffusa che mette il denaro e il profitto al di sopra di ogni altro interesse. Dalla ricchezza si fa derivare il potere, la felicità, la realizzazione della propria personalità, il godimento sfrenato del sesso. Tutto questo viene identificato con la libertà che raggiunge la sua massima espressione nello “sballo”.


Una volta erano soltanto gli intellettualoidi che cercavano l’affermazione del proprio io secondo il proverbio “Meglio un giorno da leoni che cento da pecora”. Oggi sta diventando l’ideale di certi ambienti giovanili dove si dichiara apertamente e si pratica la violenza non solo sugli altri ma su sé stessi. Una vita serena e tranquilla è considerata insipida, si cercano le situazioni estreme in grado di scaricare tutta l’adrenalina che si ha in corpo per provare emozioni forti, almeno una volta nella vita. Anche se sarà l’unica e irripetibile perché, spiaccicati contro un muro o sull’asfalto di un cortile, si è scritta la parola “FINE”.

Qualcuno mi accuserà di cinismo, ma trovo insopportabili e ipocrite le lacrime e i pianti che accompagnano puntualmente i funerali di chi ha cercato lo “sballo”. Ha ottenuto ciò che voleva, perché piangere? Capisco il dolore di una mamma e di un padre che hanno perso un figlio, ma non potevano fare niente per evitare quella che non può essere chiamata “disgrazia”? Forse sono anch’essi vittime insieme ai loro figli, drogati prima nel cervello che nel sangue, di nemici che si presentano accattivanti promettendo la felicità in cambio dei nostri soldi, ma in realtà consegnandoci dei cadaveri irriconoscibili.

Si ripete la storia di Pinocchio abbindolato dai due soci truffaldini che continuano a ripetere a tutti i babbei che incontrano “Di noi ti puoi fidar”, magari anche in musica come nella canzonetta. Non tutti ci cascano, ma può venire a tutti il sospetto che potrebbero anche aver ragione e che la felicità si trovi davvero nel paese dei balocchi. Perché non farci una visita? Ad occhi aperti, s’intende, tanto siamo vaccinati.

Gentile e suadente, ma è sempre arroganza

Il libro della Sapienza ci aveva presentato il ritratto del potere arrogante e sfacciato, da chiunque venisse esercitato (Sapienza 6,1-11). Era facilmente riconoscibile e quindi era possibile opporvisi anche se c’era il pericolo di venire schiacciati o anche di sostituirlo con altrettanta arroganza. Ma il potere che ha conquistato il consenso popolare promettendo di costruire un paese di Bengodi dove tutti vivranno felici e contenti, presenta altre credenziali di non facile interpretazione. Sono un po’ come certi contratti che ci vengono proposti dove spiccano in bella evidenza i vantaggi mentre le clausole vessatorie sono scritte in caratteri microscopici.


Si tratta, a volte, di autentiche truffe, di circonvenzione di incapaci che, quando sono proposte da soggetti al di sopra di ogni sospetto non sono considerati dalla giustizia. Le cronache anche recenti ci hanno fornito purtroppo materiale abbondante di questo genere. Mi permetto una digressione sul tema. Ho cercato su internet la voce “circonvenzione” e nella sezione “Immagini” ho notato una presenza piuttosto consistente di preti e di vescovi, in buona compagnia di noti uomini politici e di personaggi dello spettacolo. Sarà un caso? O si tratta di un prodotto di qualche fabbrica di bufale? Oppure di una campagna denigratoria? Comunque, da qualsiasi parte la si giri salta sempre fuori l’arroganza del potere che, a quanto pare, ha sfiorato anche le aule dove troneggia la scritta “La legge…” con quel che segue.

È in questo miscuglio di poteri subdoli e arroganti che dominano la nostra vita che dobbiamo ricercare i “nemici per cui pregare”, come dice un bel canto di chiesa. Sono questi poteri occulti, siano essi organizzazioni multinazionali oppure il semplice impiegato che timbra il cartellino e poi va a giocare alle slot machine, che hanno inquinato la nostra vita e che in un modo o in un altro influiscono sul nostro modo di pensare e di agire.

Se adesso pensate che sto esagerando, attenzione! Siete già stati contagiati dal virus che minimizza la capacità dei poteri occulti di influire negativamente sui comportamenti soprattutto dei giovani, cioè dei più deboli. Altro soprassalto di stupore indignato perché vi hanno convinti (i poteri occulti!) che i giovani sono i più forti perché fanno molti goal, perché corrono veloci, perché hanno sempre il telefonino in mano, perché, perché… Non sono i più forti, ma i più fragili, e non certo per colpa loro ma per la mancanza di educazione ricevuta dagli adulti. Il comportamento del figlio di Salomone che ho ricordato nel post precedente, evidenzia i disastri che può provocare una cattiva educazione che permette all’inesperienza dei giovani di trasformarsi in arroganza presuntuosa, rafforzata dal sostegno interessato dei coetanei (1 Re 12,1-19).

I giovani sono solo i più esposti al pericolo di diventare dei robot telecomandati da chi li vuole sfruttare a proprio vantaggio. A chi approfitta della loro inesperienza e mette in giro certe idee diventando così la causa di comportamenti a volte delittuosi, Gesù direbbe, senza mezzi termini “Guai anche a voi!”.

E allora, come dobbiamo pregare?

Chiedo scusa a chi legge se mi rifaccio sempre alla lingua ebraica. Non la considero l’unica lingua capace di comunicare con Dio, però è la lingua dalla quale dipendono tutte le nostre conoscenze su Dio, secondo la fede degli ebrei e di noi cristiani. A volte certe parole diventate comuni si riempiono di significati impensati se pronunciate nella lingua originale. È il caso della preghiera e del verbo corrispondente.


Pregare, in ebraico è hitpallel e preghiera è tefillah. Il verbo ha come primo significato “giudicare” e nella forma (o coniugazione) dove assume il senso di pregare, indica un’azione riflessiva o reciproca. Per capirci meglio, pensiamo al verbo “lavarsi”: generalmente è usato come riflessivo ma può indicare anche uno scambio di servizi tra due o più persone. Quindi il verbo hitpallel avrebbe il significato di “giudicare il proprio comportamento” e anche quello di “giudicare il comportamento di un altro che, a sua volta fa lo stesso verso di noi”. Trattandosi di un giudizio, si presuppone un dialogo o con se stessi o con una terza persona che, nel contesto specifico, è nientemeno che Dio.

In pratica, la preghiera è sentita come un confronto tra la propria vita e la volontà di Dio espressa nei comandamenti, ma anche come una verifica della fedeltà di Dio alle sue promesse. Partendo da queste considerazioni non possiamo più identificare la preghiera con la recita di formule fisse anche se avallate da tradizioni secolari. La stessa invocazione conclusiva della preghiera che ci ha insegnato Gesù “ma liberaci dal male” esce dal generico per assumere le fattezze non tanto di persone singole quanto di comportamenti contrari all’insegnamento del vangelo che ci sono proposti con un bombardamento continuo di messaggi.

Il primo “giudizio” che la preghiera ci invita a pronunciare è su noi stessi, sulla nostra risposta alle sollecitazioni a considerare la ricchezza e il piacere egoistico l’unico scopo della vita. È questo il nemico per cui dobbiamo pregare perché modifichi i suoi messaggi che portano alla morte trasformandoli in inviti a vivere felici insieme agli altri e non escludendo qualcuno. E Dio ci risponderà facendoci capire che tocca a noi reagire, dissociandoci dalle lusinghe ingannevoli e dimostrando con i fatti che è possibile realizzare una società più giusta. Senza aspettare che ci venga recapitata dagli angeli in confezione regalo con tutti gli accessori e perfettamente funzionante.

A parte la buona fede di tanti cristiani che si sono fatti dei meriti, grazie alla misericordia di Dio, biascicando rosari o inventando “coroncine” fantasiose, penso che sia doveroso dare alla nostra preghiera un contenuto diverso che non ci lasci come eravamo ma che ci spinga a migliorare la vita nostra e della società di cui siamo parte.

venerdì 17 febbraio 2017

ACCADEVA 2000 ANNI FA…


“GUAI A VOI”


Il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto”. È un’affermazione che si trova nel libro della Sapienza (6,5) e che riassume le valutazioni di molte pagine bibliche sugli uomini che esercitano il potere. Nella Bibbia sono indicati con diversi nomi, giudici, re, faraoni, satrapi, governatori o imperatori non cambia molto perché hanno tutti un denominatore comune: l’uso dell’autorità a vantaggio personale. Non fanno eccezione i capi religiosi né tantomeno coloro che hanno accumulato ricchezze. Come su ogni tema, nella Bibbia si trovano anche valutazioni positive che idealizzano alcuni personaggi, ma sono casi rari e a volte anche discutibili, come avviene per il grande re Salomone (Siracide 47,12-23).


 È emblematico il racconto del cambiamento istituzionale richiesto dal popolo di Israele con il passaggio dal governo dei Giudici alla monarchia. Non si trattava soltanto di cambiare il titolo di chi comandava prendendolo dai nemici Filistei, ma di attribuire al re un potere assoluto che gli oppositori sostenevano che appartenesse soltanto a Dio.  La narrazione del capitolo 8 del primo libro di Samuele meriterebbe un commento a parte. Samuele, sacerdote e giudice, aveva lasciato la carica di giudici ai suoi due figli che “però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano verso il lucro, accettavano regali e sovvertivano il giudizio” (1 Samuele 8,3). La richiesta di essere governati da un re in sostituzione dei giudici è interpretata come una ribellione contro Dio: “hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi” (8,7).
Le conseguenze prospettate sono drammatiche per il popolo costretto a lavorare per mantenere la vita agiata del re, dei suoi funzionari e della pletora di burocrati al servizio del regno (8,9-22). Mi limito a sottolineare l’insistenza del narratore nel dire “quello che è vostro diventerà suo” come avveniva in una società che pagava le tasse non con moneta ma con beni materiali e con prestazioni personali a titolo gratuito.
L’esigenza di avere comunque una guida per organizzare la vita sociale portava ad accettare la nuova situazione di compromesso affidandola alla protezione del Dio nazionale. La tensione tra una realtà difettosa e un ideale sognato si riscontra nella presentazione dei vari re. Sono pochi quelli a cui è dato un voto sufficiente in una classifica che ha come elemento di confronto il re Davide, lui stesso fortemente idealizzato in vista di un suo futuro discendente che realizzi in pieno le aspettative di Dio e del popolo. Sarà il Messia a dare una risposta adeguata al desiderio di giustizia e di pace. Per i cristiani è stato Gesù di Nazareth l’interprete autentico del progetto di Dio, mentre gli ebrei vivono ancora nell’attesa di una risposta.

“Morirete come ogni uomo”
Che il potere dia alla testa e faccia credere a chi lo esercita di essere superiore a tutti e a tutto comunicando la convinzione di essere onnipotente, è opinione comune, trasformata in comportamenti arroganti da chi comanda. Sembra essere questa la situazione denunciata nel Salmo 82 che ai governanti di qualsiasi popolo, illusi di essere delle divinità immortali, toglie la maschera senza alcuna pietà: “morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti” (82,7). Dopo l’accusa generica di favorire i delinquenti (82,2) il Salmo propone un programma di buon governo. “Difendete il debole e l’orfano, al misero e al povero fate giustizia. Salvate il debole e l’indigente, liberatelo dalla mano degli empi” (82,3-4). Tutti i verbi sono all’imperativo e descrivono quello che ogni governante dovrebbe fare.
Il primo libro dei Re al capitolo 12 riporta l’episodio forse più drammatico della storia politica di Israele, cioè la divisione del regno in due stati nemici, il Regno di Samaria al Nord e il Regno di Giuda al Sud. La scintilla che ha scatenato la tragedia è stata, secondo il racconto biblico, l’arroganza del figlio di Salomone che doveva succedere al padre. Certamente vi erano motivi profondi di disagio che rendevano precaria la situazione, ma tutto poteva avere una soluzione positiva se non ci fosse stata l’inettitudine di Roboamo e di tutto l’ambiente della corte di Gerusalemme. Anche questo episodio meriterebbe un commento più ampio, non possibile in questa sede. Per il nostro scopo sarà sufficiente la semplice lettura di tutto il racconto.
Ma può essere utile e interessante leggere le affermazioni attribuite al figlio di Salomone, istigato dai giovani suoi coetanei “educati” – si fa per dire – con lui a corte. Agli Israeliti che abitavano al Nord e che chiedevano una riduzione delle pesanti tasse imposte da Salomone, Roboamo rispose: “Mio padre vi ha imposto un giogo pesante; io renderò ancora più grave il vostro giogo. Mio padre vi ha castigati con fruste, io vi castigherò con flagelli” (1 Re 12,14). A queste parole scoppiò la rivolta delle tribù interessate che portò alla divisione del regno. Con un nuovo atto di arroganza il re mandò a sedare i disordini il capo della polizia che era l’uomo meno adatto essendo il sovrintendente ai lavori forzati imposti agli Israeliti del Nord ora diventati ribelli. Il servo del potere morì lapidato dalla folla mentre il re scappò a rifugiarsi nella sua reggia. “Fece ciò che è male agli occhi del Signore” (1 Re 14,22) è il giudizio severo che verrà ripetuto spesso sia per i re di Giuda che per quelli del Regno del Nord. 

Anche se comandano le donne…
I racconti biblici riguardanti i re riferiscono di intrighi, congiure sanguinose, massacri compiuti per accedere al potere. In queste lotte sanguinose troviamo anche una donna di nome Atalia che, dopo aver ordinato l’uccisione dei rivali, regnò in Gerusalemme per sette anni prima di venire a sua volta uccisa in una congiura guidata da un sacerdote del tempio. La vicenda non è entrata nei racconti popolari della nostra cultura biblica e forse qualcuno sarà stupito per questa presenza femminile inaspettata.
Ma il racconto è interessante anche per il seguito immediato che presenta un caso di lavori per il restauro del tempio, appaltati e finanziati regolarmente e mai eseguiti. Il capitolo 12 del secondo libro dei Re è così fitto di particolari descrittivi da sembrare un resoconto fiscale dove si intrecciano la raccolta di offerte per il tempio, l’affidamento dell’appalto dei lavori, i lunghi anni passati senza fare nulla (ma con i soldi intascati!), l’esclusione dei primi impresari e la gestione diretta dell’impresa da parte del giovane re, Ioas (2 Re 12,1-17). Il quale re finisce poi per consegnare tutte le offerte raccolte ad un re straniero per convincerlo a togliere l’assedio a Gerusalemme (2 Re12,18-19). Questa decisione salvò la città ma non la vita del re, ucciso in una congiura dei suoi ufficiali (12,20-22). Ci sarebbe materiale abbondante per un film di azione!
Atalia non è l’unica donna nella Bibbia ad interpretare l’arroganza del potere fino a giungere all’assassinio. Si racconta anche della regina Gezabele, moglie di Acab re nel regno del Nord venuto in contrasto con un suo suddito per il possesso di una vigna. Il re vive in modo drammatico la vicenda e viene umiliato dalla regina che lo accusa di essere un incapace e un imbelle. Gezabele gestisce personalmente il caso commettendo una serie di reati: prende decisioni al posto del re, abusa del potere, falsifica i documenti, li autentica con il sigillo reale, ordina di istruire un processo che dovrà concludersi con la condanna a morte già decisa dalla regina per eliminare l’innocente che aveva osato contrapporsi al re (1 Re 21,1-16). Il racconto non si conclude con la descrizione del delitto ma continua con il nuovo processo intentato dal profeta Elia a nome di Dio contro Acab e Gezabele e con la condanna a morte dei due colpevoli (1 Re 21,17-26; 2 Re 9,10). 

Potere ed edilizia
Nel libro del profeta Geremia è riportata una denuncia rivolta direttamente al re Ioiakim accusato di un comportamento che oggi definiremmo “anti sindacale” in occasione dei lavori di sopraelevazione di un attico nella reggia. La citazione è un po’ lunga ma è troppo bella per essere mutilata. “Guai a chi costruisce la casa senza giustizia e il piano di sopra senza equità, che fa lavorare il suo prossimo per nulla, senza dargli la paga, e dice: ‘Mi costruirò una casa grande con spazioso piano di sopra’ e vi apre finestre e la riveste di tavolati di cedro e la dipinge di rosso. Forse tu agisci da re perché ostenti passione per il cedro? Forse tuo padre non mangiava e beveva? Ma egli praticava il diritto e la giustizia e tutto andava bene. Egli tutelava la causa del povero e del misero e tutto andava bene; questo non significa infatti conoscermi? Oracolo del Signore. I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie” (Geremia22,13-17).
Garantisco che il testo non è copiato dai quotidiani usciti in questi ultimi tempi, ma si trova nel libro di Geremia. Bisogna anche ricordare che il padre che “mangiava e beveva ma praticava la giustizia” è il “pio re” Giosia, ricordato altrove con grandi lodi per la riforma religiosa di cui si era fatto promotore. Geremia, piuttosto freddino per questo aspetto religioso che aveva ottenuto scarsi risultati, lo loda invece per il suo impegno nel praticare la giustizia, senza per questo dover rinunciare ad una vita normale. 

Dio giudica i potenti
Potrei continuare a sfogliare la Bibbia evidenziando altri personaggi emblematici per l’arroganza con cui hanno esercitato il potere accompagnati sempre da dure condanne attribuite a Dio stesso e da conseguenti tremendi castighi. L’autore del libro della Sapienza, dal quale ho copiato le parole con cui ho aperto questo post, aveva molto materiale a sua disposizione che lo autorizzava a scrivere parole di fuoco contro i governanti. Mi scuso ancora per la citazione molto lunga, ma non me la sento di toglierne nemmeno una parola. Siamo nel capitolo 6 del libro della Sapienza, attribuito a Salomone (!).
  6,1 Ascoltate dunque, o re, e cercate di comprendere;
imparate, o governanti di tutta la terra.
2 Porgete l'orecchio, voi dominatori di popoli,
che siete orgogliosi di comandare su molte nazioni.
3 Dal Signore vi fu dato il potere
e l'autorità dall'Altissimo,
egli esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi.
4 Pur essendo ministri del suo regno,
non avete governato rettamente
né avete osservato la legge
né vi siete comportati secondo il volere di Dio.
5 Terribile e veloce egli piomberà su di voi,
poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto.
6 Gli ultimi infatti meritano misericordia,
ma i potenti saranno vagliati con rigore.
7 Il Signore dell'universo non guarderà in faccia a nessuno,
non avrà riguardi per la grandezza,
perché egli ha creato il piccolo e il grande
e a tutti provvede in egual modo.
8 Ma sui dominatori incombe un'indagine inflessibile.
9 Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole,
perché impariate la sapienza e non cadiate in errore.
10 Chi custodisce santamente le cose sante
sarà riconosciuto santo
e quanti le avranno apprese vi troveranno una difesa.
11 Bramate, pertanto, le mie parole,
desideratele e ne sarete istruiti.

     Il potere come servizio al bene comune
     Chi scriveva questi giudizi pesanti non poteva immaginare che dopo pochi decenni a Gerusalemme ci sarebbe stato un re ambizioso, amante del lusso e di ogni piacere, senza scrupoli, sanguinario e violento di nome Erode, e che i suoi successori ne condividessero non solo il nome ma anche l’arroganza. Non poteva pensare che anche il potere religioso sarebbe stato gestito con criteri ben diversi da quelli che lui proponeva. Forse invece sperava che qualcuno continuasse il suo impegno per moralizzare la vita della classe dirigente, demolendo gli idoli tanto cari ai potenti e realizzando finalmente il sogno di un regno costruito e governato secondo la volontà di Dio.
Quando un falegname di Nazareth, lasciati gli strumenti da lavoro incominciò ad annunciare il regno di Dio, forse aveva presenti le figure di governanti delineate nel libro della Sapienza se si sentiva in dovere di affermare: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Luca 22,25-26; Matteo 20,25-27; Marco10,42-45).

Certamente Gesù pensava ai rapporti tra i suoi discepoli e non a riforme istituzionali delle monarchie o comunque dei governi dei diversi popoli per i quali comunque valeva il principio dell’autorità come servizio pubblico e non come fonte di ricchezza per pochi privilegiati. La condanna della ricchezza quando diventa lo scopo della vita, l’idolo a cui si sacrifica ogni altro valore, è la costante della predicazione di Gesù, indirizzata a tutti quelli che hanno qualche autorità non solo politica ma anche religiosa, non solo a singole persone ma anche a classi sociali o gruppi di potere.
L’attaccamento al denaro spingeva quelli che si ritenevano superiori agli altri per censo, per cultura, per posizione sociale ad approfittare della situazione a scapito della stragrande maggioranza della gente. Bastava saper scrivere – cosa piuttosto rara in quei tempi – per vantare una serie di privilegi che facilmente si trasformavano in veri soprusi a danno dei più deboli e indifesi (Luca 20,45-47). Gesù ha parole durissime contro i Farisei che erano considerati le guide del popolo e approfittavano della loro posizione di prestigio per ottenere vantaggi personali (Matteo 23,1-33).
Nei Vangeli, come in tutta la Bibbia, non troviamo una condanna della ricchezza in sé stessa, che anzi è considerata una benedizione di Dio. Il Siracide dichiara “Beato il ricco, che si trova senza macchia e che non corre dietro all’oro. Chi è costui? Noi lo proclameremo beato” (31,8-9a). La domanda “Chi è costui?” sottolinea la rarità di questo comportamento che comunque viene presentato come un’opportunità offerta all’uomo. Così anche Gesù non propone ai discepoli un ideale ascetico con la rinuncia ai beni materiali ma li mette in guardia dal pericolo di considerarli l’unico scopo della vita e di servirsene in modo egoistico. Il ricco gaudente della parabola non è condannato perché organizza banchetti sontuosi e mangia a crepapelle. “Travaglio di insonnia, coliche e vomiti accompagnano l’uomo ingordo” è il giusto castigo per chi è solito abbuffarsi, aveva già commentato il Siracide (31,20b). Il ricco Epulone della parabola invece, è sepolto nell’inferno perché non aveva prestato attenzione al mendicante che moriva di fame alla porta del suo palazzo (Luca 16,19-31).

Un’ultima riflessione. Il potere mantiene la sua arroganza anche quando passa nelle mani di folle inferocite che lo esercitano con violenze e crudeltà inaudite. Poco importa se sono reazioni a soprusi subiti, reali o immaginati. Nel libro che racconta le vicende di alcuni apostoli si legge che anche Paolo in diverse occasioni è stato oggetto di violenza da parte di folle sobillate contro di lui a causa della sua predicazione. “Alcuni Giudei trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto” (Atti 14,19). “La folla insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione” (16,22-23a). Anche i compagni di Paolo furono coinvolti in brutte avventure a motivo della loro predicazione: “All’udire ciò s’infiammarono d’ira e si misero a gridare […] Tutta la città fu in subbuglio e tutti si precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco macèdoni, compagni di viaggio di Paolo. […] Intanto, chi gridava una cosa, chi un’altra; l’assemblea era confusa, e i più non sapevano il motivo per cui erano accorsi” (19,28-29.32).
Tutta la storia, anche al di fuori di quella narrata dalla Bibbia, è intessuta di stragi compiute in nome della giustizia e della libertà, etichette di comodo usate dai vincitori per dare una parvenza di legalità a quella che spesso è solo alternanza di potere arrogante. Condannato senza mezzi termini dalla Bibbia.

Ma per nostra fortuna la Bibbia racconta fedelmente quanto accadeva più di 2000 anni fa, mentre oggi è tutta un’altra cosa….



PS. Se qualche lettore pensa che il testo di Sapienza 6,1-11 possa interessare i nostri governanti, può inviarlo via e-mail con una semplice operazione di copia-incolla, oppure farglielo pervenire con altri canali tradizionali o attraverso i social network.


martedì 7 febbraio 2017

IN CUCINA CON IL VANGELO




Anche senza fare una ricerca accurata, vengono in mente diversi momenti in cui Gesù dimostra di avere una certa familiarità con l’ambiente in cui si preparano i cibi e non soltanto con quelli in cui si consumano. I vangeli presentano Gesù come invitato a banchetti in varie occasioni. In un caso – le nozze a Cana – la sua partecipazione è attiva e determinante. Nei racconti della moltiplicazione dei pani e dei pesci è il personaggio centrale. La sua familiarità con il cibo si manifesta anche dopo la risurrezione quando chiede che gli venga offerto un boccone o quando accetta l’invito dei due discepoli a Emmaus. Addirittura il vangelo di Giovanni ce lo presenta come cuoco che accende il fuoco per una grigliata di pesci che offre agli apostoli sulle rive del lago di Genezaret. Non ha paura di ripetere l’accusa che gli facevano di essere un mangione e un beone. Soprattutto lega la sua presenza in mezzo ai discepoli ad una cena nella quale lui stesso è cibo e bevanda.


La sua esperienza tra i fornelli gli permette non di scrivere un ricettario di piatti prelibati, ma di ricavare degli insegnamenti preziosi riguardanti il comportamento da tenere verso il prossimo e verso Dio, secondo il metodo dei grandi maestri di sapienza. Così la cuoca che impasta la farina e aspetta paziente che sia lievitata diventa l’icona di chi lavora alla costruzione del regno di Dio (Matteo 13,33-35). La donna che mette a soqquadro la casa per cercare la moneta smarrita e festeggia il ritrovamento con le vicine è presentata come un modello da seguire nella ricerca di chi si è allontanato da Dio (Luca 15,8-10). La cucina è anche l’ambiente più probabile in cui si accende la lampada e soprattutto si controlla se il sale può ancora essere usato per insaporire i cibi (Matteo 5,13-16). E proprio da questo Gesù trae lo spunto per delineare il ritratto dei suoi discepoli che devono essere luce e sale.

Nel mondo antico non ci si preoccupava che il sale facesse salire la pressione del sangue e si teneva conto solo del sapore che dava ai cibi e delle altre qualità positive che lo rendevano un elemento fondamentale e indispensabile per la vita. Lo sapeva bene l’autore del libro di Giobbe che considera la mancanza di sale sul cibo una delle sofferenze più insopportabili toccate al protagonista della vicenda narrata. “Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? Che gusto c’è nel liquido del latte cagliato? Quello che mi dava il voltastomaco è diventato il mio pane” (Giobbe 6,6-7). L’identificazione degli alimenti ripugnanti non è facile, ma la mancanza di sale è espressa chiaramente e trova il consenso di tutti i traduttori.

È alla luce di queste caratteristiche del sale che si capisce a fondo l’insegnamento che ne ricava Gesù. Come il sale rende gradevoli i cibi così i discepoli devono comunicare agli uomini il gusto della vita vissuta secondo il volere di Dio. Ma non possono trasmettere nulla agli altri se non lo hanno in sé, perché fa parte della loro natura. I discepoli devono vivere con gioia per poter essere testimoni credibili. Se vivono un’esistenza scialba, insipida, senza ideali ed entusiasmi non possono comunicare nulla, diventano ingombranti e meritano di finire tra i rifiuti.



Se c’è un black out e rinunciamo al sale…

Tra le caratteristiche dei discepoli Gesù mette per prima la luce. È una parola che ricorre centinaia di volte in tutta la Bibbia e spesso viene usata in senso figurato per indicare la realtà in opposizione alle tenebre che impediscono di vedere le cose come sono. L’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo identifica il Verbo di Dio con la luce (Giovanni 1,4-9) e poi con Gesù e con il suo insegnamento: “Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»” (8,12). I discepoli non possono emettere una luce propria ma solo quella che hanno ricevuto dal loro Maestro (Matteo 5,13).


Il legame tra luce e sale rende i due termini inseparabili e interdipendenti. Ci sono molte proposte offerte all’uomo per la valorizzazione e il godimento della vita, ma solo quella testimoniata dai discepoli è quella autentica che può realizzare le attese più profonde. A patto che abbia come contenuto la verità realizzata in Gesù.

Il carpentiere di Nazareth ha dimostrato di conoscere bene anche quanto avviene in cucina e di apprezzare e gustare i cibi saporiti. Ma il suo insegnamento non riguarda la gastronomia bensì la vita intera sulla quale proietta la luce che permette di vedere le cose nelle loro forme effettive. E non vuole essere da solo in questa impresa, cerca dei testimonial convinti della bontà del suo progetto e capaci di presentarlo in modo convincente ai loro contemporanei.

L’invito è allettante e provocatorio allo stesso tempo. Da una parte offre la possibilità di entrare in un’impresa grandiosa a dimensione mondiale e dall’altra pone la domanda sulla scarsa incisività della proposta nel mondo moderno. Siamo sinceri: al di là di certi criteri di valutazione basati su statistiche puramente numeriche (leggi: numero dei battezzati, anche questo comunque in calo), si deve costatare un distacco crescente dei comportamenti personali dai valori contenuti nel vangelo a cui sono preferite altre proposte di vita. Le letture trionfalistiche del passato hanno fatto il loro tempo anche se affiorano ancora in qualche occasione.

La luce che Cristo ha acceso non può manifestarsi solo con qualche flash abbagliante ma deve illuminare la vita quotidiana mettendo in evidenza gli aspetti che la rendono appetibile e gustosa e rendendo visibili gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione. Sono convinto che molti cristiani vivono la loro esperienza guidati da queste convinzioni. Senza stabilire confronti impossibili, forse sono anche in numero maggiore che nel passato, ma ho l’impressione che oggi ci manchi la capacità e forse anche la voglia, di incidere sulla società.

Non mancano certo, gli interventi ufficiali delle guide autorizzate. Ma non sono i documenti né tantomeno le leggi imposte a cambiare la vita. Se manca la convinzione profonda, se non si prova il gusto e il sapore di un’esperienza vissuta in modo positivo non servono a nulla le “gride” di manzoniana memoria. Non si è mai scritto tanto sulla gioia derivante dal vangelo. In pratica poi spesso si è concretizzata in scopiazzature mal riuscite di balli da discoteca o da riunioni dove si sprecano i larghi sorrisi e i convenevoli da salotto chic.

Ringraziando Dio, forse è finita l’era infausta dei flagellanti e dei penitenti cosparsi di cenere per commuovere una divinità più simile a Moloch che al Padre presentato da Gesù. Forse però non siamo ancora riusciti a trovare il modo corretto di essere “la luce del mondo e il sale della terra” perché diamo ancora troppa importanza al tarlo che continua a suggerire al nostro cervello che non è possibile o che è troppo difficile essere luce e che il sale danneggia la salute.

Ma se l’ha detto il carpentiere di Nazareth che sapeva il fatto suo anche in cucina, vale la pena di provarci. Non avrà ragione Lui?