MenuPagine

Benvenuti alla Scala dei Santi

EOLP - EuropeanOpenLearning Publisher
Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

venerdì 3 febbraio 2017

COME È LA “VOCE DI DIO”?

         È diventata un’abitudine diffusa usare parole ebraiche per indicare dei termini ritenuti importanti nel linguaggio biblico e forse anche per dare un certo tono culturale a quanto si scrive. Capita sempre più spesso di imbattersi non solo con l’abusato shalom (pace) ma anche con ruach (vento, spirito), chesed (misericordia), rachamim (viscere, amore). Io stesso cedo a questa moda che presenta anche aspetti positivi almeno come stimolo alla curiosità del lettore. Una di queste parole con funzione di specchietto per attirare l’attenzione è qol che già nella scrittura presenta un’anomalia per la lingua italiana, con quella “q” iniziale a cui non siamo abituati. Chi usa questa parola le dà il significato di “voce” che, nella lingua italiana, indica “il suono articolato dall'essere umano tramite le corde vocali parlando, ridendo, cantando, piangendo o urlando” secondo la definizione che ne dà Wikipedia. Non c’è niente di strano se un italiano leggendo nella Bibbia l’espressione frequente “la voce di Dio” le dà il significato che trova nei dizionari e nell’uso comune. Se poi il nostro lettore ha visto qualche film “biblico” in chiave hollywoodiana è autorizzato ad immaginare Dio che parla con voce roboante seguita da un’eco interminabile.

Una parola dai cento significati
Però se cerchiamo la parola qol in un vocabolario ebraico troveremo che il primo significato elencato è “rumore, strepito, fragore, chiasso, suono” con rimandi ai testi biblici dove il termine in questione è usato con questa accezione. Il libro del profeta Ezechiele usa il termine con una certa frequenza in questi diversi significati. Così in 1,24 sembra che ci sia un concentrato dei vari significati che mettono in imbarazzo i traduttori costretti a trovare sinonimi adatti ai vari soggetti rumorosi. Il termine qol è ripetuto cinque volte più una sesta all’inizio del verso seguente, ma i traduttori italiani si sentono in dovere di precisare che si tratta di “rombodelle ali” simile al “rumore delle cascate, al tuono dell’Onnipotente, al fragore di una tempesta e al tumulto di un accampamento”, cinque parole che non hanno niente in comune con la definizione di “voce” offerta dai dizionari italiani. Sempre la stessa parola in 26,10 indica lo “strepito dei cavalieri” mentre in 26,13 diventa il “suono delle cetre”.
Il “tuono dell’Onnipotente” (qol Shadday) di Ezechiele 1,24 diventa “tuono di YHWH” (qol YHWH) nel Salmo 29 che lo ripete per sette volte nella descrizione di una violenta tempesta che si è formata sul Mediterraneo per abbattersi sulla costa occidentale, sul Libano e infine sul deserto siriano. Ma oltre allo sconquasso di una bufera qol può indicare anche il leggero “fruscìo” di una foglia che cade (Levitico26,36). In senso figurato non richiede nemmeno qualche suono sensibile: la voce del sangue di Abele grida a YHWH dal suolo (Genesi4,10). Il Salmo 19 afferma che tutte le creature proclamano la gloria di Dio semplicemente con la propria esistenza senza bisogno di far sentire la loro voce (Salmo 19,4-5).
Con la “voce delle colombe” (Nahum 2,8) ci avviciniamo alla definizione dei dizionari italiani che parlano di “organo della fonazione” fondamentalmente comune a uomini e animali. Riferendosi a colombe il profeta Nahum non pensava certo a uccelli parlanti ma soltanto al verso emesso che viene interpretato come un lamento. Per l’autore del libro di Giobbe il suono del flauto richiama “la voce di chi piange” (Giobbe 30,31), già espressiva da sola senza bisogno di parole.
Quando la voce è quella dell’uomo, normalmente si presuppone che venga usata per esprimere i pensieri o i sentimenti. Se chi prega dice: “innalzo la mia voce a YHWH” (Salmo 3,5) ci fa pensare ad una preghiera recitata ad alta voce, non certo ad un grido disarticolato. È l’uso normale della voce nei dialoghi tra uomini e nella preghiera a Dio. Non c’è da meravigliarsi se nella cultura ebraica si attribuisce a Dio una voce per comunicare con gli uomini, rispondendo alle loro preghiere o indicando come si devono comportare. Il linguaggio della Bibbia ricorre continuamente ad antropomorfismi attribuendo a Dio un volto, occhi, orecchie, braccia, mani come anche sentimenti e comportamenti tipicamente umani, pur rifiutando decisamente qualsiasi rappresentazione della divinità sotto forma di statue o disegni. Non si vede un motivo per considerare la voce un’eccezione a questo schema rigido.

Il tuono e il Decalogo
Eppure si sono sempre letti i testi che usano l’espressione “voce di Dio” come se riferissero un fenomeno uditivo sensibile, anche se riservato solo a pochi privilegiati. Non si è tenuto conto di una caratteristica tipica della letteratura ebraica: il gusto e la capacità di raccontare. Tutta la Bibbia (ricordo: anche il Nuovo Testamento!) è un grande racconto reso vivo non solo da descrizioni accurate ma soprattutto dai dialoghi tra i protagonisti. YHWH, il protagonista assoluto di tutte le vicende narrate, poteva starsene in silenzio nel suo palazzo nei cieli? Era semplicemente impensabile. YHWH parla, fa sentire la sua voce in tanti modi anche quando il suo popolo ha paura di sentirlo e scarica su Mosè il rischio di un dialogo tanto impegnativo.
Il testo è esplicito nel descrivere la scena grandiosa riportata nel libro dell’Esodo al capitolo 19: “… vi furono tuoni (qolot voci) e fulmini, una nube densa sul monte e un suono (qol) fortissimo del corno… il suono (qol) del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con un tuono (qol)” (Esodo 19,16.19). Il racconto si conclude nel capitolo seguente: “Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, e il suono del corno… il popolo ebbe paura e dissero a Mosè: ‘Parla tu con noi, ma non parli con noi Dio altrimenti moriremo’” (Esodo20,18-19).
Il pio desiderio di dare importanza alle “dieci parole” (i dieci comandamenti) ha trasformato i tuoni in suoni articolati come parole inducendo il lettore ad interpretare il racconto nel modo diventato tradizionale e ufficiale, tanto che uno studioso ha potuto scrivere: “… la Bibbia stessa presenta un caso – unico nel suo interno – di ‘scrittura divina’. Il libro dell’Esodo racconta che nell’esperienza del Sinai il popolo udì direttamente le parole del Decalogo pronunciate da Dio dal monte (cf. Es 20,1-21; Dt 5,1-22)”. L’affermazione viene ribadita nelle righe seguenti che insistono sull’assenza di ogni mediazione umana perfino nella scrittura delle “dieci parole”. Ma il testo di Esodo 20,18 come si è visto, dice che il popolo “percepiva i tuoni, i lampi e il suono del corno” ed esclude che li interpretasse come parole.
Attribuire alla Bibbia quello che non dice, significa renderle un pessimo servizio, anche se lo si fa in buona fede e con le migliori intenzioni. La pagina dell’Esodo su cui ci siamo fermati è composta con una forza espressiva straordinaria, assemblando in modo mirabile tradizioni diverse con lo scopo di mettere al centro dell’attenzione il tesoro più prezioso conservato dal popolo di Israele. L’autore di questo racconto ha raggiunto il suo scopo ma solo se lo leggiamo per quello che è effettivamente, senza darne interpretazioni di comodo.
In un post pubblicato nel 2011 e ripresentato a maggio dello scorso anno dal titolo “Dio parla nella Bibbia. Come?” presentavo i tre modi fondamentali con cui sono riferite le parole di Dio: nella Torah sotto forma di leggi, nei libri profetici come rivelazione personale ma indirizzate al popolo, nei libri sapienziali come frutto di riflessione sulle esperienze della vita. In ogni caso, le “parole di Dio” sono pronunciate o dal legislatore-narratore o dal profeta (che può anche annunciare il falso!) o dal maestro di sapienza. La Bibbia è ben lontana da certe letture infantili assetate di magia e di miracolistico che sono state fatte in passato e che perdurano ancora in certi ambienti.