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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 14 gennaio 2017

PREGHIERA DEI MORTI O DEI VIVI?

IL  DE PROFUNDIS

        Nella tradizione popolare cattolica c’è una preghiera associata al ricordo dei morti in modo così stretto da sembrare composta proprio in vista di funerali o in occasione di lutti. Forse è superata in popolarità solo dal Requiem aeternam, conosciuto ormai come L’eterno riposoche ha avuto la meglio grazie alla sua brevità e semplicità. La preghiera concorrente è il De profundis che continua ad essere indicato con il titolo latino. Non tutti sanno che il testo del Requiem aeternam è tratto da un libro apocrifo del III secolo dal titolo Apocalisse di Esdra mentre il De profundisnon è altro che il Salmo 130 della Bibbia ebraica. Informazioni di questo genere possono sembrare di nessun interesse per chi affida a Dio i propri cari con la speranza di assicurare ad essi la felicità eterna. Eppure, anche queste notizie ci aiutano a capire meglio il senso delle preghiere che recitiamo, spesso in modo meccanico senza renderci conto di quanto chiediamo al Signore.

Del De profundis ho un ricordo nitidissimo, anche se il fatto risale a 67 anni fa. Avevo iniziato l’anno di noviziato e avevo incominciato a recitare il Breviario come i sacerdoti. Arrivati a Natale mi trovai di fronte al Salmo 130 con mia grande sorpresa. Non capivo perché in quel giorno di festa per la nascita di Gesù si dovesse recitare la preghiera per i morti. Mi sembrava un controsenso. Cercavo di darmene una ragione leggendo i commenti al salmo che però davano tutti la stessa interpretazione: rappresentava la preghiera che i defunti dal profondo del purgatorio rivolgevano a Dio chiedendo il perdono dei propri peccati così da poter essere ammessi in paradiso.
Tutto filava liscio: l’anima “purgante” che grida verso il Signore, il desiderio ardente di incontrarlo, l’impazienza delle sentinelle (ma da dove saltavano fuori?) che rappresentava l’ansia dell’anima desiderosa di essere liberata dalle pene del purgatorio. Tutti i particolari erano coerenti e si incastravano uno nell’altro come le tessere di un puzzle. Ma il disegno ricostruito non dava una risposta alla domanda che mi ero posta: che c’entrava con Gesù bambino? Col passare degli anni si fece sempre più insistente un’altra domanda, molto più impegnativa: che c’entrava con la Bibbia, in particolare con l’Antico Testamento ebraico?

“I morti non lodano il Signore”
Il libro di Isaia (38,10-20) riporta la preghiera del re Ezechia gravemente ammalato, che chiede a Dio di non farlo morire perché “non ti lodano gli inferi, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi” (Isaia 38,18-19a). Nel libro di Giobbe ritorna insistente l’affermazione che i morti sono esclusi da qualsiasi dialogo non solo con i vivi ma anche con Dio. È il grido disperato di chi sta per morire e si rivolge a Dio: “Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!” (Giobbe 7,21). Questa convinzione porta l’autore del libro intitolato Qohèlet all’amara riflessione: “I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito” (Qohèlet 9,5-6a). Lo stesso sentimento anima la preghiera conservata in alcuni Salmi: “Quale vantaggio dalla mia morte, dalla mia discesa nella tomba? Ti potrà forse lodare la polvere e proclamare la tua fedeltà?” (Salmo 30,10; cfr. Salmo 6,6; 88,11-13; 115,17-18).

Soltanto nei libri più recenti, giunti a noi in lingua greca e che noi consideriamo parte dell’Antico Testamento (i cosiddetti Deuterocanonici) si affaccia la prospettiva di un rapporto personale dei morti con Dio che assume la forma di un rendiconto dal quale l’uomo risulta debitore. Particolarmente significativo in questo senso è il racconto riportato nel secondo libro dei Maccabei dove troviamo l’idea dell’offerta di un sacrificio di espiazione per i peccati commessi da coloro che erano caduti in battaglia contro i nemici del popolo di Dio (2 Maccabei 12,38-45). Il De profundis esprimeva la stessa esigenza, ma la sua composizione era ritenuta da tutti i commentatori precedente all’epoca dei Maccabei. Il disegno ricostruito con i diversi pezzi del puzzle risultava anacronistico. Doveva esserci un altro quadro all’origine del Salmo 130 e forse sarebbe stato possibile scoprirlo guardando i singoli elementi “senza pregiudizi”, come si dovrebbe fare sempre quando si legge la Bibbia (ma non solo la Bibbia!).

Ricostruiamo il puzzle
       Ho incominciato dal titolo: Shir hamma’alot, Canto delle salite. Lo stesso titolo viene dato ai Salmi da 120 al 134 e comunemente si pensa che fossero canti che accompagnavano i pellegrini che si recavano a Gerusalemme secondo le prescrizioni della legge. Si possono individuare con buone probabilità anche vari momenti del viaggio, dell’arrivo in vista della città, di che cosa avveniva nei giorni di permanenza a Gerusalemme fino all’inizio del ritorno. L’appartenenza al gruppo dei Salmi di pellegrinaggio permette di stabilire che al termine della “salita” c’è una località ben conosciuta, Gerusalemme (e non il paradiso ipotizzato dalla preghiera dei morti!).
        De profundis. È la prima parola del Salmo, che corrisponde ad un termine ebraico usato raramente in questa forma precisa, ma abbastanza frequente in parole derivate da una radice che significa “profondità” di ogni tipo. In ebraico la parola è ma’amaqim e negli altri casi al di fuori del nostro Salmo indica sempre gli abissi marini. Penso che sia difficile che chi ha usato questa parola stando nei pressi di Gerusalemme si riferisse agli abissi del Mediterraneo, quando si trovava in altre “profondità” dalle quali doveva compiere l’ultima “salita” del suo pellegrinaggio.
        Forse qualcuno lo troverà poco poetico, ma è molto più realistico immaginare il pellegrino giunto in vista della meta, che vede davanti a sé l’ultimo tratto di strada in salita e pensa alla fatica che deve ancora affrontare dopo il lungo viaggio. Quelle poche centinaia di metri dovevano sembrare interminabili a chi aveva nelle gambe un bel po’ di chilometri. Chi è stato a Gerusalemme può immaginare anche un luogo preciso da cui anche oggi si può provare la stessa sensazione. Non si tratta certo del Monte degli ulivi, da cui si ammira la città dall’alto, bensì dalla parte meridionale dove confluiscono la valle del Cedron e quella della Geenna. Due “profondità” che si assommano nell’animo del pellegrino stanco e lo inducono ad usare un termine decisamente esagerato: “dal profondo dell’abisso” (v. 1).
Ti ho chiamato, YHWH! Niente di più naturale del grido di gioia per aver raggiunto la meta che non era tanto una città quanto il Dio che vi abitava. Chiamarlo per nome era come dirgli: Sono arrivato! “Ascoltami, presta attenzione alle mie suppliche” (v. 2).
Ma a questo punto il tono cambia bruscamente. Il pellegrino passa dalla gioia dell’incontro che aveva immaginato alla dura realtà di non essere ricevuto dal suo Dio e si chiede: Che cosa ho fatto di male? Dobbiamo cercare di capire il perché di questa nuova situazione. Il Salmo non lo dice chiaramente ma offre indizi preziosi per dare una risposta che rimane sempre ipotetica ma ben fondata sulle abitudini del tempo che ci sono note.
Per prima cosa il Salmo ci informa che siamo di notte. Lo deduciamo dal fatto che le sentinelle aspettano il mattino. Siamo dunque all’ultimo turno di guardia, cioè precisamente dalle tre alle sei. Il pellegrino vede le sentinelle, quindi si trova all’esterno delle mura viste “dal profondo delle valli”. Ma perché il pellegrino si trova lì a quell’ora della notte? Evidentemente perché non ha potuto entrare in città. Sappiamo che alla sera le porte che davano accesso alle città venivano chiuse e la sorveglianza per impedire l’ingresso di persone non gradite si spostava dalle porte alla parte superiore delle mura di difesa che era percorribile grazie ad un camminamento.

La preghiera dei ritardatari
Il nostro pellegrino, giunto in tarda serata, ha trovato le porte della città già chiuse e interpreta questo fatto come se il suo Dio gli avesse sbattuto la porta in faccia perché non lo voleva ricevere. E si chiede il perché di quel rifiuto. La risposta era ovvia: si trattava di una punizione divina per qualche offesa che aveva recato al suo Dio, anche se inconsapevolmente: “Se consideri le colpe, YAH, Signore, chi potrà sussistere?”(v. 3). Al verbo “considerare” corrisponde in ebraico un verbo che troviamo anche al v. 6 nella forma del participio presente: shomerimsentinelle, e quindi si potrebbe tradurre “se tu farai la guardia alle nostre colpe”, cioè se le custodisci gelosamente perché non ne manchi nemmeno una al rendiconto, “chi potrà stare in piedi?” secondo il senso originale del verbo usato ya’amod che si oppone all’atteggiamento imposto agli sconfitti che dovevano prostrarsi con la fronte a terra ai piedi del vincitore.
(Dal Corriere della sera)

Ma il Dio a cui si rivolge il pellegrino è disposto a perdonare per far capire all’uomo quale sia l’atteggiamento giusto che deve tenere nei suoi confronti, non arroganza né servilismo, ma grande rispetto: “Infatti presso di te c’è il perdono perché vuoi essere rispettato” (v. 4). È questo il timore che altrove viene messo a fondamento di una vita serena (Proverbi1,7; Siracide 1,9-18).
Con questa convinzione il pellegrino può dire: “Attendo YHWH, lo attende la mia anima, perché spero nella sua parola” (v. 5). A questo punto l’attenzione viene attratta dal movimento delle sentinelle che vanno avanti e indietro per ispezionare il tratto delle mura affidato alla loro sorveglianza. Il pellegrino vede in quelle ombre inquiete che si stagliano sul cielo che incomincia a schiarirsi il desiderio impaziente che venga il mattino per poter riposare dopo la notte insonne e lo confronta con il proprio desiderio di incontrare finalmente il suo Dio: “L’anima mia desidera il Signore più che le sentinelle il mattino, le sentinelle il mattino” (v. 6).
Finora il pellegrino si era espresso sempre in prima persona. Ora si rende conto di essere in compagnia di altri con cui aveva compiuto il viaggio e si sente in dovere di coinvolgerli nella propria preghiera che si allarga fino ad abbracciare tutto il popolo: “Attenda Israele YHWH perché presso YHWH c’è la misericordia e con lui c’è una grande liberazione” (v. 7). Non si tratta qui di libertà dai nemici ma da tutto quello che aveva impedito al pellegrino di incontrare subito il proprio Dio e che aveva individuato nelle “colpe” (v. 3): “Ed egli libererà Israele da tutte le sue colpe” (v. 8).
Si conclude così un Salmo ambientato perfettamente in una situazione concreta vissuta dal protagonista con grande partecipazione emotiva e mosso da una profonda spiritualità. Il disegno che abbiamo ricostruito assemblando i diversi pezzi del puzzle risulta assolutamente coerente con il contesto biblico in cui è inserito e non richiede giustificazioni anacronistiche. Nulla vieta di pregare con le parole di questo Salmo in situazioni diverse da quella che lo ha ispirato. Lo possiamo fare purché non attribuiamo alla Bibbia affermazioni o insegnamenti che le sono estranei.
Concludo suggerendo di sentire come un musicista ebreo contemporaneo ha interpretato i primi quattro versetti del nostro Salmo. È una musica struggente che esprime in modo mirabile il desiderio di incontrare Dio nella propria vita che ogni credente dovrebbe sperimentare.
https://youtu.be/jlT8o1YMKwI