MenuPagine

Benvenuti alla Scala dei Santi

EOLP - EuropeanOpenLearning Publisher
Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 31 dicembre 2016

LA BIBBIA: USI ED ABUSI


LA BIBBIA E NOI

Come si sa, la Bibbia è una straordinaria raccolta di scritti che riportano le riflessioni sui diversi casi della vita fatte nei secoli passati da uomini appartenenti al popolo di Israele. Le esperienze commentate ricoprono le situazioni più frequenti, così che ogni lettore può trovare qualche caso che presenta forti analogie con quanto sta vivendo. Evidentemente saranno differenti le modalità di realizzazione tra l’episodio biblico e quanto vissuto dal lettore moderno, ma le motivazioni che hanno spinto i protagonisti biblici sono sempre le stesse che muovono l’uomo di ogni tempo.
      Ad esempio, il desiderio smodato della ricchezza con le conseguenze negative che produce è un tema ricorrente nella Bibbia. Le ricchezze ricercate avidamente potranno essere, a seconda dei casi, oggetti di metalli preziosi, possesso di terreni, palazzi, vestiti lussuosi, una vita agiata. L’uomo moderno può avere gli stessi desideri che però identifica in oggetti del tutto sconosciuti agli antichi. Oggi non desideriamo più soltanto la vigna del vicino ma estendiamo l’interesse al possesso di intere regioni. Oggi colleghiamo la felicità della ricchezza a ville miliardarie, allo yacht da crociera, ai conti in banca, agli abiti firmati, alle collezioni di opere d’arte, al controllo dei capitali di grandi imprese, tutte cose che in passato non esistevano se non in forme diverse.
Un lettore attento e responsabile non farà fatica a trovare nelle pagine della Bibbia personaggi, avvenimenti o suggerimenti per vivere sereni e tranquilli che sembrano corrispondere alle proprie aspettative quasi fossero una foto della realtà contemporanea. Penso che tutti abbiamo avuto questa sensazione leggendo certi racconti che sembrano ricavati dalla cronaca (spesso nera) dei nostri quotidiani. A seconda dei casi e dello stato d’animo del lettore, l’analogia tra narrazione biblica e avvenimenti recenti potrà suggerire reazioni differenti.

Riferirsi alla Bibbia con rispetto

Si può trovare una conferma della bontà delle proprie scelte oppure la condanna di comportamenti giudicati in modo severo dagli autori biblici. A volte una frase del testo biblico può sembrare una sintesi folgorante del proprio ideale di vita ed essere considerata come un programma che si vuole realizzare. Spesso si ricorre ai testi biblici in conferenze o in scritti anche non di carattere religioso per sostenere la validità delle proprie argomentazioni.
In linea di massima questi riferimenti alla Bibbia sono segno della considerazione in cui è tenuta nella nostra cultura, anche non dichiaratamente religiosa e quindi sono apprezzabili. Se un giovane sceglie una frase del vangelo per presentare agli amici l’annuncio della sua ordinazione sacerdotale non vuole certamente far credere che l’evangelista pensasse proprio a lui quando scriveva quelle parole dette da Gesù in un contesto diverso. La citazione del vangelo viene intesa da tutti come l’impegno che il nuovo sacerdote si assume nell’impostare la propria vita.
Così quando si accompagna l’annuncio della morte di una persona cara con una frase del vangelo si vuole solo esprimere la propria fede nella risurrezione e lo si fa con le parole che hanno sostenuto e alimentato la speranza del defunto e dei suoi familiari. A nessuno viene in mente di controllare la citazione per verificare se corrisponda o no al significato del testo originale.

Quando non si rispetta la Bibbia

Le cose cambiano quando si riportano frasi della Bibbia per sostenere le proprie idee e dimostrare la validità delle argomentazioni basandosi sull’autorità del testo considerato sacro. Si parte dal presupposto che la Bibbia è “Parola di Dio” e quindi deve esprimere sempre la verità. Perciò, se il testo biblico afferma le cose che dico io, il mio insegnamento o comunque le mie affermazioni sono vere e indiscutibili. Forse non lo si dice in modo così sfacciato, ma chi parla o scrive citando versetti biblici e i lettori o ascoltatori condividono questa convinzione di fondo.
In questi casi è necessario rispettare rigorosamente la corrispondenza non solo delle singole parole ma del significato globale delle frasi tra quello che si dice o scrive e quello che è scritto realmente nella Bibbia. Si corre il rischio di attribuire ai testi biblici affermazioni che sono solo frutto della fantasia di chi li riporta in modo non corretto. A volte si cade in questa trappola spinti dal desiderio di presentare solo gli aspetti belli e gradevoli di un testo che invece contiene anche elementi ostici ai nostri gusti e alla nostra sensibilità e che vanno comunque spiegati ma non eliminati.
Qualche volta si citano delle parole che si trovano effettivamente nella Bibbia ma non esprimono il suo insegnamento, sono nella Bibbia ma non della Bibbia. Un esempio per chiarire l’idea. In tre Salmi si trova l’affermazione: “Non c’è Dio” (Salmi 10,4; 14,1; 53,1). Materialmente sono parole che si trovano nel testo ma non dicono il pensiero del testo che infatti le attribuisce allo stolto. Ma un autore italiano contemporaneo ha scritto un intero libro per dimostrare che nell’Antico Testamento non si parla di Dio.
Dire che “Gesù bestemmiava” può risultare sorprendente e scandaloso per molti, eppure è scritto nel vangelo di Marco (14,64) che mette l’accusa sulla bocca del sommo sacerdote. Anche in questo caso le parole sono nel vangelo ma non corrispondono all’insegnamento del vangelo. E si potrebbe continuare ricordando altri casi di citazioni distorte, a volte intenzionalmente ma spesso per ignoranza. Il risultato è comunque lo stesso: attribuire alla Bibbia ciò che non dice ed esponendola a smentite che non la riguardano ma che fanno sorgere dei dubbi sulla sua credibilità.

Le citazioni bibliche “ad orecchio”

Il problema diventa più serio quando è la liturgia a trattare i testi biblici con una certa
disinvoltura, andando, per così dire, ad orecchio. Non dubito affatto delle buone intenzioni delle anime pie che hanno introdotto versetti biblici qua e là sotto forma di antifone varie senza prestare attenzione al senso che hanno nel contesto di origine. Bisogna anche riconoscere che spesso queste scelte sono favorite dalla bellezza e dalla poesia dei testi citati, per di più in latino che esercitava tutto il fascino della sua capacità espressiva. Aggiungiamo l’incanto di certe melodie gregoriane, e la ricetta ha tutti gli ingredienti per essere accolta con applausi.
Confesso che è difficile resistere alla suggestione del “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum” con le strofe struggenti che vi sono state aggiunte per formare il canto tipico dell’Avvento. Pensate solo a quella cascata di note che porta fino al fondo dell’abisso e che descrive sonoramente le parole “et cecidimus”. L’abbinamento è perfetto e giustifica l’invocazione al Salvatore perché scenda dal cielo a portare tra gli uomini quella pace che non sono stati capaci di costruire. Non c’era preghiera più adatta al tempo dedicato all’attesa del Natale di Gesù. Infatti la liturgia cattolica assegna questa supplica accorata come antifona d’ingresso alla quarta domenica di Avvento.
Ma se ci chiediamo qual è il significato di quelle parole nel libro di Isaia da cui sono tratte, corriamo il rischio di perdere un po’ di poesia ma soprattutto di perdere fiducia nella Bibbia che nel testo citato (Isaia 45,8) non si riferisce affatto al messia futuro bensì, più prosasticamente, alla
pioggia. Il contesto del capitolo 45 è la rivendicazione che il profeta attribuisce al Dio di Israele, di essere l’unico ad aver fatto ogni cosa esistente e di poter guidare la storia a proprio piacimento. In particolare al v. 7 è detto chiaramente: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo”. Anche la pioggia che fa fiorire il deserto, obbedisce agli ordini di Dio. Come si vede la descrizione è coerente e non lascia spazio ad altre interpretazioni.
Forse la poesia di un altro testo ha giocato un brutto scherzo a chi ha scelto come antifona d’ingresso alla liturgia eucaristica della seconda domenica dopo Natale il testo del libro della Sapienza (18,14-15a). “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale…”. L’atmosfera densa di attesa creata dal versetto 14 si scioglie con l’introduzione del “logos” onnipotente che lascia il trono di Dio. Per un cristiano queste parole richiamano spontaneamente il mistero del Verbo di Dio che si fa carne, come è scritto nel prologo del vangelo di Giovanni. Tutto coincide alla lettera e quindi… Ma nel testo greco del libro della Sapienza il versetto continua definendo il “logos” “guerriero implacabile” che non scende pacificamente dal trono celeste per dimorare tra gli uomini, ma “si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra” (18,15b-16).
Questo dice il libro della Sapienza, che descrive con enfasi drammatica la morte dei primogeniti
egiziani e non si riferisce affatto al mistero del nostro Natale. È innegabile la tentazione di forzare il testo in prospettiva messianica ma è un risultato che si ottiene solo fermandosi a metà versetto e addolcendo il violento “si lanciò” con un innocuo “venne”. Purtroppo l’abitudine di mutilare i testi scegliendo solo quello che fa comodo si è diffusa a macchia d’olio e ha contaminato non solo la liturgia ma anche i testi di teologia e i documenti del magistero. È quello che mi piace chiamare “metodo dello spiedino” che infilza una dietro l’altra citazioni di mezzi versetti comunicando così una “mezza verità” e attribuendola alla Bibbia.

Sono tentato di abbandonare il riferimento allo spiedino per passare alla “raccolta differenziata”, perché con questo sistema si raccolgono soltanto gli scarti della Bibbia ma si perde una delle caratteristiche principali della Bibbia: la sua unità nella diversità.
 

martedì 20 dicembre 2016

“NON FIDATEVI DI PAROLE BUGIARDE” (Geremia 7,4)


… ANCHE SE LE TROVATE IN UN’ANTIFONA DEL BREVIARIO!
       Le parole del titolo sono tratte dal libro di Geremia e si riferiscono all’affermazione che definiva il tempio di Gerusalemme l’unico legittimo per tutto il regno di Giuda. Il profeta non contesta la verità dell’affermazione ma denuncia le conseguenze di comodo che ne venivano tratte da coloro che ne approfittavano a proprio vantaggio. In altre circostanze Geremia accusa coloro che per interesse smerciano come “parola di Dio” quelli che sono soltanto i loro sogni (cfr. 23,14-32).
 Il giudizio severo del profeta di Anatot si potrebbe applicare anche a coloro che citano le parole della Bibbia staccate dal loro contesto originale per adattarle a situazioni diverse e anche a quelli che introducono nel testo biblico elementi estranei o interpretazioni arbitrarie di particolari descrittivi. Questa abitudine è diventata frequente ed ha contaminato in qualche caso anche ambiti che dovrebbero essere esemplari nel modo di presentare l’insegnamento biblico, come la liturgia.

Da dove vengono i “Re Magi”?

Il pericolo maggiore di queste manipolazioni del testo biblico è quello di attribuire alla Bibbia affermazioni, giudizi, notizie, addirittura personaggi del tutto estranei o inesistenti. È il caso, consolidato da una lunga tradizione, dei Re Magi di cui si ricordano i nomi, il colore della pelle, il paese di provenienza, la stella cometa che li guida (anticipando i nostri “navigatori”!) e altri particolari che sanno molto di folclore natalizio ma che non hanno alcun riscontro o giustificazione nel testo evangelico. Questi “arricchimenti” di un racconto piuttosto scarno di particolari, sono belli, suggestivi e rispondenti al desiderio infantile di conoscere cose nascoste. Non c’è nulla di dissacrante, generalmente, in queste “invenzioni fantastiche” ma solo il desiderio di rendere più comprensibile un testo considerato oscuro.

La “mela” avvelenata

Un altro caso clamoroso di falsa interpretazione della Bibbia è la mitica “mela” identificata nel frutto proibito da Dio ad Adamo ed Eva. Il testo biblico non ne parla affatto in termini botanici ma è esplicito nei riferimenti ad un modo di esprimersi caratteristico di un ambiente che chiamiamo “sapienziale”. Si trattava di persone che volevano vivere felici e che erano convinte di aver trovato il segreto per riuscirci in un complesso di indicazioni concrete che chiamavano “Sapienza”.
La concretezza che li guidava aveva suggerito di paragonare questa realtà astratta ad un albero e gli insegnamenti ai frutti che produceva. Ma, sempre per la concretezza che li animava, sapevano dell’esistenza di piante che offrivano frutti velenosi. Ecco allora la necessità di mettere in guardia chi voleva vivere felice dal cibarsi di frutti che davano la morte e di nutrirsi solo di quelli che alimentavano la vita. Evidentemente non si trattava di prescrizioni di un dietologo ma di consigli dati da un amico convinto, per esperienza personale, che per vivere felici si deve seguire la strada indicata da Dio e non quella che ognuno voleva tracciare secondo i propri gusti.

L’inutile caccia al “Super Moby Dick”

Come non si doveva cercare “l’albero della conoscenza del bene e del male” nei trattati di botanica, così non si sarebbe dovuto consultare nessun testo di zoologia marina per trovare notizie sul grande cetaceo che, secondo il racconto biblico, avrebbe inghiottito il profeta Giona nel corso di una tempesta spaventosa. L’insolito boccone umano era stato così indigesto al mostro marino che aveva finito col vomitarlo vivo e vegeto dopo averlo tenuto nello stomaco per tre giorni e tre notti.

Tutto il libro che contiene questo racconto è pieno di particolari tanto inverosimili da suggerire almeno il sospetto che chi l’ha scritto volesse comunicare ai suoi lettori qualcosa di diverso da quella che poteva apparire come la cronaca fedele di un fatto realmente accaduto con le modalità descritte. Eppure, generazioni di studiosi hanno compiuto ricerche accurate per ritrovare i resti fossili del cetaceo avallando così, anche senza volerlo, l’idea che la Bibbia è falsa perché contiene dei racconti inventati per far addormentare i bambini irrequieti, come facevano i nostri nonni quando non c’era ancora la televisione.

La Bibbia è piena di bufale?

A questo punto è doveroso chiederci se non dobbiamo credere alla Bibbia o non piuttosto alle spiegazioni che ne danno quelli che la commentano? Se siamo scettici sui Re Magi e sulla stella che traccia la Road Map, è a causa delle falsità contenute nel vangelo o invece è a causa di particolari aggiunti per riempire dei vuoti narrativi con invenzioni di dubbia origine? E se la mela è diventata il simbolo dell’attività sessuale è a causa della Bibbia, che addirittura non la nomina, o di chi non l’ha capita? E se Giona ci fa pensare a Geppetto che si era costruito l’abitazione nel ventre della balena è a causa della Bibbia o invece è dovuto a chi ha letto il racconto in modo puerile?
Reazioni di questo tipo mi sono sempre venute in mente quando recitavo il Breviario nel tempo di Avvento. In quel periodo dell’anno liturgico ho sempre cercato di evitare la recita di una delle tre Ore canoniche. Chi conosce come è organizzata la preghiera a cui sono tenuti i sacerdoti e che oggi è usata anche da molti laici, forse avrà già capito il motivo della mia avversione all’ora incriminata, la prima, che però è chiamata Terza. La cosa può sembrare strana, ma è così ed ha anche una sua spiegazione (Le altre Ore sono: la seconda chiamata Sesta e la terza chiamata Nona. Se qualcuno mi chiederà il perché, sono pronto a spiegarlo).

L’Antifona incriminata

Nella Liturgia cattolica ogni salmo è preceduto da una frase che dovrebbe sintetizzare il significato della preghiera che segue e per questo viene chiamata Antifona, cioè “quella che sta davanti” anche se poi viene ripetuta alla fine. Nelle tre ore medie un’unica antifona precede i tre salmi e quindi dovrebbe suggerire lo stato d’animo con cui recitare la preghiera. Ebbene, all’ora Terza l’antifona afferma “I profeti l’avevano annunciato: il Salvatore nascerà dalla Vergine Maria”.
Non ci vuole molto a capire che si tratta di un’affermazione semplicemente falsa. Nessun profeta, in nessuna pagina della Bibbia ha mai detto quelle parole. Sono espressioni di qualche anima pia vissuta nei secoli passati che ha pensato bene di consolidare la fede dei cristiani presentando il mistero dell’incarnazione del Verbo come realizzazione di una promessa esplicita e dettagliata. Peccato che la promessa sia stata fatta in altri termini, con mille sfumature e che si sia realizzata in modo analogo e coerente sempre avvolta in quel mistero che caratterizza tutti gli interventi di Dio registrati nella Bibbia.
Quell’antifona non è solo uno scivolone innocuo dovuto ad una devozione malintesa ma dev’essere considerato un attentato alla verità che noi consideriamo una qualità essenziale della Bibbia. Attribuirle affermazioni di quella portata induce a considerarla inaffidabile e quindi a rifiutarla insieme alla fede che è nata da essa.
È sorprendente che uno svarione di questa portata sia stato accolto nella preghiera ufficiale della Chiesa. Però mi chiedo anche perché la mia reazione all’antifona in tutti questi anni si sia limitata ad evitare la recita dell’Ora Terza nel periodo di Avvento e non sia stata seguita da una denuncia pubblica. Forse è uno dei tanti peccati di omissione a cui ci siamo abituati per pigrizia, per trascuratezza o anche per la convinzione che nessuno ci bada e che comunque si tratti di proteste che non avranno mai un seguito. Il clima generale introdotto nella Chiesa cattolica (non soltanto!) da papa Francesco può aver influito nel comunicarmi più fiducia che avvenga presto la sostituzione di quelle “parole false” che sono un attentato alla verità della Bibbia. Chissà che prima della Parusia non abbia la soddisfazione di recitare l’Ora Terza in Avvento alle nove del mattino senza aspettare il mezzogiorno per recitare l’Ora Sesta!

mercoledì 14 dicembre 2016

LA BIBBIA NELLE MANI DI TUTTI


MA NON BASTA TENERLA IN MANO

«Nell'apprendere e professare la fede, abbraccia e ritieni soltanto quella che ora ti viene proposta dalla Chiesa ed è garantita da tutte le Scritture. Ma non tutti sono in grado di leggere le Scritture. Alcuni ne sono impediti da incapacità, altri da occupazioni varie. Ecco perché, ad impedire che l'anima riceva danno da questa ignoranza, tutto il dogma della nostra fede viene sintetizzato in poche frasi». Potrebbe sembrare un primo commento a caldo dell’intervista rilasciata da papa Francesco alla Civiltà Cattolica prima dello storico viaggio in Svezia in occasione dei 500 anni dall’inizio della riforma protestante. In realtà si tratta di un commento tratto dalle «Catechesi» di san Cirillo di Gerusalemme, vescovo, vissuto verso la metà del 300. Non erano passati molti anni da quando l’imperatore Costantino aveva riconosciuto alla Chiesa il diritto ad esistere. Possiamo immaginare facilmente un clima di euforia tra i cristiani che si vedevano finalmente liberi di manifestare la loro fede e di accedere senza paura ai testi sacri sui quali era fondata.
      È sorprendente perciò la preoccupazione del vescovo Cirillo che riscontra la difficoltà dei cristiani ad accostarsi alla Bibbia. Sono due le cause indicate dal vescovo: scarsa preparazione culturale e mancanza di interesse che porta a preferire “occupazioni varie” allo studio della Parola di Dio. Non meraviglierebbe la difficoltà derivante dalla cultura se a dirlo fosse il vescovo di una chiesa ai confini dell’impero romano, nelle lontane Gallie o tra le foreste della Turingia. Ma lo dice il vescovo di Gerusalemme, città coinvolta in modo diretto nelle vicende narrate e dove sarebbe lecito aspettarsi una continuità nelle abitudini e nel linguaggio. Evidentemente non era così.

Una “sintesi” troppo… sintetica

Ma il breve commento di Cirillo ci costringe a fare altre considerazioni non meno interessanti e, purtroppo, di un’attualità permanente. Il vescovo di Gerusalemme non si preoccupa che i fedeli conoscano tutte le Scritture. Si accontenta che abbraccino e ritengano “soltanto quella [fede] che ora ti viene proposta dalla Chiesa ed è garantita da tutte le Scritture”. La Chiesa si presenta come garante della corrispondenza sostanziale del suo insegnamento con l’insieme delle verità presenti nella Bibbia, ritenuta troppo complessa per la massa dei fedeli. L’intervento riduttivo minimalista è suggerito certamente da zelo per la salvezza delle anime che potrebbero interpretare in modo inesatto i testi biblici. Cirillo è esplicito e, come si è visto, ben motivato: “ad impedire che l'anima riceva danno da questa ignoranza, tutto il dogma della nostra fede viene sintetizzato in poche frasi”. Una volta si sarebbe paragonato al celebre “Bignami”  che ha salvato dalla bocciatura intere generazioni di studenti. Oggi forse si potrebbe parlare di un abstract  che sfronda un testo delle lungaggini che lo appesantiscono, oppure di una “lettura breve” seguendo le indicazioni canonizzate dalla liturgia attuale.

Ammetto che le intenzioni di Cirillo fossero buone. Forse però sono state interpretate come un invito al disimpegno culturale nei confronti di libri giudicati troppo al di sopra delle capacità del popolo di Dio. Oggettivamente era un atto di disistima verso i cristiani che comportava una sottovalutazione della stessa Bibbia. Questo clima piuttosto pessimistico che ha allontanato dalla Bibbia molte generazioni di credenti ha avuto dei risvolti che, dal punto di vista della fede, possiamo definire provvidenziali. Con linguaggio moderno, potremmo dire che i libri sacri sono stati “ibernati” inconsciamente, in attesa di poterli restituire intatti alle generazioni future che, nel frattempo avrebbero potuto attrezzarsi culturalmente così da evitare i pericoli paventati dal vescovo Cirillo nel 350.
A mille e settecento anni di distanza da quella data, forse è giunto il momento di autorizzare le procedure per riportare in vita con tutta sicurezza, quella creatura meravigliosa custodita gelosamente per tanti secoli e così permetterle di raggiungere finalmente lo scopo per cui era stata realizzata. Non è che in passato siano mancati i tentativi di “scongelamento” della Bibbia. Nonostante i divieti di accesso, sono sempre esistiti dei temerari che hanno cercato di impadronirsi dei codici segreti per raggiungere quei tesori, resi ancor più affascinanti dalle misure protettive adottate da chi si considerava il loro custode ufficiale.

La Bibbia nelle mani di tutti

Il tentativo più clamoroso di conquistare il tesoro e distribuirlo a tutti si è verificato 500 anni fa ed è stato favorito da una serie di circostanze diverse di carattere politico e sociale. Ma determinante è stata un’invenzione avvenuta proprio in quegli anni: la stampa con caratteri mobili che ha reso possibile il sogno di mettere nelle mani di un gran numero di persone quei libri che erano stati confinati nelle biblioteche e nelle sacrestie fumose dei luoghi di culto.

C’erano ormai tutti gli elementi per formare una miscela pronta ad esplodere in presenza della più piccola scintilla. E le occasioni non sono mancate: interessi politici, economici, rivendicazioni territoriali, questioni di prestigio che si intrecciavano tra di loro ma con la presenza divenuta costante della Bibbia che tutti dichiaravano di voler difendere. Ognuno lo faceva con le armi che sentiva più consone alle proprie forze: Inquisizioni, roghi, scomuniche, demonizzazione dell’avversario, accuse di eresie, sospetti atroci contro chi stava dall’altra parte. La chiesa di Roma così centralizzata, raccoglieva puntigliosamente gli anatemi scagliati in ogni direzione, assicurando così ad ognuno l’esecrazione perenne.
Le chiese “eretiche” finirono per trovare il motivo che le univa non tanto nell’interpretazione della Bibbia quanto nell’opposizione comune a chi pretendeva di essere l’unico in possesso della verità: il papa di Roma. Non sono un esperto di letteratura popolare di matrice protestante, ma da quanto ho letto qua e là ho avuto l’impressione che gli attacchi violenti e a volte volgari contro il capo della Chiesa cattolica siano stati la tematica preferita da molti scrittori.
Lo è stato e forse lo è ancora se nel 2012 un’editrice protestante ha sentito la necessità di ripubblicare un volume di oltre 600 pagine scritto nel 1858 e giunto ormai alla sesta edizione italiana, proprio quella che un Amico aveva messo nelle mie mani qualche tempo prima. Mi pareva di leggere certe vite di santi cattolici quando si presentavano i grandi personaggi delle diverse “riforme” protestanti mentre al contrario mi sembravano datati e ricalcati sui soliti stereotipi i ritratti dei papi e della chiesa cattolica.

Verso un mondo nuovo

Nonostante il permanere di pregiudizi reciproci, purtroppo giustificati dalla storia, si deve riconoscere che stiamo vivendo un momento che potrebbe aprire la strada a rapporti ispirati più al vangelo che ad altri interessi politici, di prestigio, di supremazia culturale o di carattere economico. La crisi mondiale che stiamo vivendo ci costringe a rivedere i motivi che hanno portato alla divisione tra gruppi di cristiani che, partendo dagli stessi testi della Bibbia ne hanno dato interpretazioni tanto diverse.

Le considerazioni che Cirillo, vescovo di Gerusalemme, faceva nel 350 sono state più o meno inconsciamente le linee guida seguite dalla Chiesa cattolica nei confronti della Bibbia, tanto rispettata da non essere nemmeno toccata, come scriveva amaramente Claudel alla fine dell’ultimo millennio. Ma anche la diffusione capillare dei testi sacri, realizzata lodevolmente dalle Società bibliche ed oggi anche dalle editrici cattoliche non è sufficiente, di per sé, a rendere la Bibbia quel libro aperto alla comprensione di tutti, come si dice dovrebbe essere.
Non basta tenere in mano i testi sacri perché il loro messaggio si comunichi in modo transdermico al paziente. Resta sempre valida la strada indicata dal viaggiatore etiope che leggeva il testo di Isaia: “Come posso capirlo se nessuno me lo spiega?” (Cfr. Atti 8,28-40). Ritorniamo così all’analisi del vescovo Cirillo: non si conosce la Bibbia per incapacità (= ignoranza) e per mancanza di interesse. La prima difficoltà si supera con lo studio, la seconda con le sfide proposte dalla vita stessa. Non ci sono alternative.
La Chiesa del 350 sperava di risolvere il problema offrendo ai cristiani una sintesi della Bibbia, condensata nelle formule dei vari Simboli della fede. La scelta, accettabile come soluzione provvisoria, si è dimostrata insufficiente a lungo termine. Oggi la Chiesa nelle sue diverse componenti si trova di fronte alla sfida proveniente dall’islam che si presenta compatto nel riferirsi al suo libro sacro. Il confronto tra le due religioni per quanto riguarda la conoscenza diffusa dei testi su cui si fondano, vede il popolo cristiano nettamente battuto da quello musulmano. Questa situazione dovrebbe stimolare i cristiani a conoscere la Bibbia per diventare maggiormente consapevoli della propria identità. La Chiesa oggi è in grado di rispondere in modo adeguato a questa richiesta di conoscenza a tutti i livelli.
Cirillo, vescovo di Gerusalemme, riscontrava mancanza di interesse per la Bibbia e ignoranza del suo contenuto. Oggi si ripropongono gli stessi problemi ma con possibilità concrete di trovare quelle risposte che le sintesi sbrigative suggerite da Cirillo e applicate dalla Chiesa non sono riuscite a dare. Il proibizionismo nei confronti della Bibbia praticato dalla Chiesa di Roma ha prodotto effetti devastanti. Ma neppure il metodo “fai da te” seguito dalle Chiese riformate ha portato tutti gli effetti sperati, anche se si fatica a  riconoscerlo.
La visita di papa Francesco in Svezia è stata quel fuori programma che potrebbe aprire la strada a sviluppi successivi. I sorrisi, gli abbracci, i colloqui tra il Papa di Roma e i responsabili di Chiese riformate sono un segno evidente della volontà di impostare rapporti nuovi tra tutti i credenti. Ma non dobbiamo dimenticare che il cammino verso la Bibbia incomincia dall’interesse comune e si percorre insieme a tutti gli interessati.
E questo richiede fatica e impegno costante.

domenica 30 ottobre 2016

CHE COSA SI VEDE “STANDO IN PIEDI”?


IL FARISEO PREGAVA BA ‘AMIDAH

Per tanti anni ho visto anch’io quello che vedevano tutti leggendo e commentando la
parabola di Gesù riportata dal vangelo di Luca 18,9-14. I due protagonisti del racconto sono un fariseo e un pubblicano descritti in un momento di preghiera. I commentatori hanno sempre evidenziato gli atteggiamenti dei due e il contenuto delle loro preghiere da un punto di vista moralistico con l’intento di trarne un insegnamento per la vita dei cristiani. In questa prospettiva lo “stare in piedi” del fariseo era interpretato come espressione del superbo che non vuole piegarsi di fronte a Dio. A lui si opponeva il pubblicano, descritto con gli occhi bassi e ripiegato su se stesso in segno di sottomissione a Dio. A volte si andava oltre a
quanto scritto nel vangelo, presentando il fariseo come espressione di una classe sociale di ricchi a cui si contrapponeva il pubblicano. Non si aveva il coraggio di definirlo povero ma i pittori lo lasciavano intuire rivestendolo di abiti modesti di fronte a quelli sfarzosi indossati dal fariseo. Il fatto che il pubblicano si fosse “fermato a distanza” era interpretato come segno di rispetto per la presenza di Dio nell’arca dell’alleanza collocata, si spiegava, al centro del tempio!

La chiave di lettura: la lingua ebraica
Non so quante volte ho letto questa parabola interpretandola come tutti senza pormi particolari problemi: sembrava tutto così ovvio! Però la settimana scorsa mentre preparavo l’omelia per la domenica successiva mi è capitato di tradurre mentalmente in ebraico il verbo greco stathéis“stando in piedi” con: ba ‘amidah. Non so perché l’ho fatto, forse avevo letto qualcosa in precedenza dove ricorreva la stessa espressione. Resta il fatto che quella parola ‘amidah  mi si è associata mentalmente al titolo dato dai rabbini a quella che viene definita “la preghiera” per antonomasia, cioè la recita delle “diciotto benedizioni” shemoneh ‘esreh. Aprire il siddur, il libro di preghiere degli ebrei, per rileggere il testo della ‘amidah con le rubriche e le spiegazioni sulle modalità con cui devono essere recitate le benedizioni è stato un gesto automatico dettato più che altro dalla curiosità.
Ma intanto avevo capito perché il fariseo stava in piedi, perché pregava a voce bassa, come se parlasse con se stesso o, per dirlo in ebraico, be libbò nel suo cuore. Mi era chiaro, finalmente, perché il pubblicano si era fermato a distanza dal fariseo (e non dall’arca dell’alleanza, scomparsa ormai già da alcuni secoli!). Lo aveva letto nel siddurche prescriveva il rispetto verso chi stava pregando in silenzio per non disturbarlo nella sua concentrazione costringendolo così a ripetere la preghiera da capo. Il particolare del fariseo che nota la presenza di un’altra persona che individua come pubblicano e che giudica con disprezzo, assume una valenza doppiamente negativa. Nonostante la preoccupazione del pubblicano di non disturbare, il fariseo si distrae e si perde dietro considerazioni nate dai suoi preconcetti.

E venendo alle parole pronunciate dai due personaggi, quelle del pubblicano sintetizzano due benedizioni, la quinta (teshuvah– ritorno [a Dio]) « Facci tornare, o Padre nostro, alla Tua Legge e fa’ che restiamo attaccati ai Tuoi precetti. Facci avvicinare, o nostro Re, al Tuo culto, e facci tornare con pentimento perfetto alla Tua presenza » e la sesta (selichah – perdono) « Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato; assolvici, o nostro Re, perché ci siamo ribellati. Tu infatti sei un Dio buono e che perdona ».
Al contrario, le molte parole dette dal fariseo non hanno nessun riscontro nei testi delle diciotto benedizioni, se non nell’ultima indicata come hoda’ah, ringraziamento, per le opere compiute da Dio, mentre il fariseo ringrazia per quanto lui stesso ha fatto e per quello che è o che crede di essere.
Il siddur alla prescrizione della posizione eretta, aggiunge un particolare che a prima vista può sembrare curioso: i piedi devono stare uniti. Penso che la vera motivazione sia quella di favorire la concentrazione di chi prega. Riducendo la superficie di appoggio a terra si creano problemi di equilibrio il che richiede una continua presenza a se stessi. L’equilibrio del corpo dovrebbe favorire quello della mente così da avere una visione della realtà più oggettiva, non condizionata da posizioni di comodo.
La preghiera balebab, nel cuore, tra sé, era un’eccezione alla prassi comune di una preghiera “gridata”. La giustificazione del comportamento anomalo è indicata nella preghiera silenziosa di Anna, la madre di Samuele rimproverata in modo brutale dal vecchio sacerdote Eli.
Il fariseo rispettava la prescrizione riguardante la voce sommessa, ma urlava balebab tutte le sue benemerenze davanti a Dio, elencandole con pignoleria burocratica. Il pubblicano non ha niente di cui vantarsi, non ha niente da nascondere, tutti sanno tutto di lui. Può solo riconoscere la verità e affidarsi alla misericordia di Dio. Ed è quello che fa.

È più comodo leggere “stando seduti” bayyeshibah
A mano a mano che leggevo il siddur e lo confrontavo con il racconto di Luca, mi accorgevo che i due personaggi prendevano sempre più corpo, assumevano uno spessore impensabile, come se si presentassero  finalmente in 3 D e in HD. La ricostruzione dell’ambiente culturale e religioso restituiva la vita a due figure diventate scialbe e contraddittorie per gli abiti che gli erano stati cuciti addosso. Un’operazione anticulturale che aveva dell’incredibile.
Sono sceso in biblioteca e ho passato rapidamente in rassegna le traduzioni e i commentari di Luca con la speranza di trovare qualche appoggio alla lettura che avevo fatto di quel racconto. Certamente la nostra biblioteca non possiede tutto ciò che è stato scritto nel corso dei secoli sul vangelo di Luca ma offre una scelta di opere abbastanza rappresentativa del livello comune degli studi sull’argomento. In nessuno avevo trovato un riferimento alla ‘amidah per spiegare il comportamento dei due personaggi del racconto lucano.
Finalmente in un commentario al vangelo di Luca edito da Paideia nel 2007 si trova un cenno ad un possibile riferimento alla preghiera ebraica delle diciotto benedizioni. A commento del verbo greco stathéisla nota n. 8 dice: “La preghiera detta delle diciotto benedizioni è anche chiamata Amidah, cioè preghiera da pronunciare in piedi. Viene recitata in piedi, in silenzio, a talloni uniti. Ringrazio il collega (…) per queste informazioni”. Trovo sorprendente che il commentatore di Luca senta il dovere di ringraziare il collega per quelle che definisce “informazioni”, come se si trattasse di notizie riservate scambiate tra agenti dei servizi segreti. Invece bastava aprire il siddur e avrebbe trovato tutte le
informazioni desiderate e tanto altro ancora. Ma il nostro commentatore, molto preparato nell’analisi tecnica del testo, non era veramente interessato alle informazioni del collega. Infatti le ignora completamente nel suo commento che procede imperterrito sulle linee interpretative tradizionali.
Avevo cercato qualche punto di appoggio, qualche sostegno al mio ingresso nella ‘amidah e invece mi ritrovavo solo con quei due personaggi, in piedi accanto a loro. E dovevo decidere con chi stare, ora che li avevo conosciuti per quello che erano veramente al di là delle maschere  che erano state loro imposte. Stavo sperimentando che cosa significava quello stare ritto sui due piedi congiunti, alla ricerca di un equilibrio da ritrovare continuamente. E ho provato anche il rimpianto per la comodità della poltrona dove adagiarsi senza troppi problemi e dove ci si può permettere anche di addormentarsi senza correre il pericolo di finire a terra.
Guardare se stessi, gli altri, il mondo, lo stesso Dio da una posizione eretta, costringe a dare valore  e sfruttare tutte le occasioni che la vita offre. Ma oltre a questo insegnamento non da poco mi pare che vada evidenziata l’ambientazione della scena fatta da Gesù e conservata scrupolosamente da Luca nel suo racconto. Un’analisi più approfondita dei particolari potrebbe portare a conclusioni interessanti anche di carattere esegetico finora sfuggite agli studiosi.

domenica 23 ottobre 2016

ECUMENISMO AD OGNI COSTO

QUANDO LA LOGICA VA IN FERIE

23/08/2016 18:41a tua privacy, le immagini remote di questo messaggio sono state bloccizza immagin
 E                                                       Egregio Direttore, sono rimasto allibito leggendo nell'editoriale di Davide Rondoni pubblicato venerdì 19 agosto la seguente affermazione: "Infatti, per chiunque creda - cristiano o islamico o ebreo - Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze, semmai sono a riguardo dell'io". Sarà perché dopo 40 anni di insegnamento dell'Antico Testamento sono abituato a motivare ogni affermazione, soprattutto se impegnativa, spiegando il significato preciso dei termini usati, ma la frase buttata lì come la cosa più ovvia, mi ha letteralmente sconcertato.
      
L'autore dell'editoriale è così sicuro che i lettori sappiano distinguere tra chi è Dio nella sua natura dalle immagini che le diverse religioni hanno costruito per presentarlo ai loro seguaci? Forse nemmeno l'autore saprebbe spiegare questo piccolo particolare, perché dimostra concretamente di non percepire nemmeno l'esistenza del problema. Del Credo che noi recitiamo l'unico elemento comune alle tre religioni citate è la frase di  inizio: Credo in Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra. E qui ci fermiamo, dopo la prima riga, che pure qualche differenza la propone, ma sono sottigliezze. Su quello che segue, cioè credo in Cristo figlio di Dio ecc. ecc. credo nello Spirito Santo, credo nella Chiesa ecc. ecc. posso tirare una croce e ignorarlo tranquillamente. Solo a queste condizioni posso affermare che abbiamo una fede comune. Io personalmente non la condivido, anche se oggi va di moda, come lo dimostra l'articolo di un giornale che si presenta come l'espressione del cattolicesimo. So benissimo che da un articolo di giornale non si può pretendere un trattato di esegesi o di teologia, ma penso che si debba pretendere il rispetto della verità e dei lettori. (…) 

… se questo è l’Avvenire della Chiesa…
Ho trascritto l’inizio del commento che avevo inviato al direttore del quotidiano della CEI per manifestare le mie perplessità sull’affermazione che oggi va tanto di moda negli ambienti di avanguardia che cercano dei punti di contatto tra le diverse fedi religiose. L’intento è lodevole ed è auspicabile che si riesca a trovarne qualcuno per mettere fine a secoli di contrapposizioni sfociate a volte in massacri assurdi di cui tutti devono sentirsi responsabili. Ma è doveroso chiedersi se la strada che si vuole percorrere insieme per raggiungere l’auspicata unità delle fedi sia quella giusta.
Ammiro la costanza e il coraggio di singoli e organizzazioni cattoliche che continuano a proporre incontri ecumenici e interreligiosi ad ogni livello. Sono stato anch’io, negli anni passati, parte attiva in questo movimento e l’esperienza fatta sul campo mi ha convinto che i risultati sperati rimangono ancora un sogno. È già un passo avanti il fatto di trovarsi tutti attorno ad un tavolo a parlare su argomenti di comune interesse senza insultarsi o anche solo senza ignorarsi a vicenda. Ma non illudiamoci, quando si arriva al dunque, cioè al modo in cui ognuno esprime la propria fede, la conversazione (il vero dialogo non è mai esistito) si blocca, qualcuno si alza, saluta educatamente magari con un sorriso, e poi se ne va.
Oggi qualcuno pensa di aver scoperto l’uovo di Colombo, di aver trovato l’algoritmo capace di risolvere l’eterno problema. Partendo dalla convinzione che Dio è uno solo in se stesso sono state individuate tre religioni che si riconoscono in questa affermazione mettendola alla base della loro stessa esistenza. In ordine di tempo –  ebraismo, cristianesimo, islamismo – sono le tre religioni monoteiste. Se tutte e tre riconoscono l’unico Dio, allora le differenze consistono solo nel modo di rappresentarlo e non possono riguardare la realtà di Dio in se stesso. Dunque, trattandosi solo di una questione di nomi, praticamente tutti diciamo la stessa cosa anche se la indichiamo con etichette diverse. E allora, perché scannarci per imporre agli altri la rappresentazione di Dio che ci siamo costruiti “a nostra immagine e somiglianza?”.
La proposta è accattivante e suggestiva oltre a presentarsi come assolutamente razionale. C’è però un piccolo particolare: ognuno dei rappresentanti delle tre religioni monoteistiche è convinto che l’immagine di Dio descritta nella propria fede corrisponde esattamente alla realtà. Le altre due sono inaccettabili. È questo l’approdo a cui si è ancorato per ora l’incontro interreligioso. Meglio di niente – si dirà – se almeno servisse ad aprire gli occhi sulla realtà difficile che non si risolve applicandole sopra una formuletta semplificatrice.

Per il passaporto ci vogliono foto uguali
Ecco perché ho reagito leggendo quel “semmai” che minimizzava il problema riducendolo ad una semplice questione terminologica del tutto soggettiva. Non si può far finta che le tre rappresentazioni di Dio siano fondamentalmente uguali tra di loro solo perché si riferiscono allo stesso personaggio. Le differenze sono sostanziali e – stando alla comprensione attuale delle rispettive teologie – sono irriducibili. Basti pensare al Dio in tre persone, che caratterizza la fede cristiana, rifiutato dall’ebraismo e negato decisamente dall’islam. Poco importa se la descrizione che ne dà il Corano non ha niente in comune con quanto afferma la teologia cristiana, dato che le affermazioni coraniche vanno comprese alla lettera che in questo caso è chiarissima.
Su questo punto fondamentale si potrebbe cercare un confronto con l’ebraismo, mettendo da parte i rispettivi pregiudizi. È quanto sta avvenendo, anche se ancora timidamente, in ambienti di avanguardia avanzata, ma la strada per arrivare ad una comprensione comune dei testi biblici è ancora lunga.
Diverso è il confronto tra il Dio dell’islam e quello dell’ebraismo. A prima vista si può avere l’impressione che le due presentazioni coincidano. In realtà questa coincidenza è all’origine della spaccatura drammatica tra i due popoli, fatta risalire, dalla ricostruzione che ne fa il Corano, alla lotta tra i due figli di Abramo, considerati nella tradizione biblica i capostipiti del popolo ebraico (Isacco) e di quello arabo (Ismaele). Chi conosce le interpretazioni date alle vicende dei fratelli maggiori privati dei loro diritti di primogenitura a vantaggio dei fratelli minori può intuire con quale stato d’animo un ebreo e un islamico si possono rivolgere allo stesso Dio. Accenno solo alle reazioni negative di certi ambienti ebraici alla definizione di “fratelli maggiori” data da papa Wojtila. Quante volte ho dovuto spiegare a gruppi di cattolici, che ripetevano come segno di rispetto la stessa frase, il sottofondo emotivo che faceva sentire ad un ebreo quelle parole come una grave offesa. 

Almeno Abramo può essere il padre di tutti?
Un altro luogo comune ripetuto con compiacimento in certi ambienti alla ricerca del dialogo ad ogni costo, è la definizione “le tre religioni abramitiche”. Anche in questo caso non è tutto così semplice come si vorrebbe far credere. Stando al racconto biblico, ebrei e arabi sono discendenti dei due figli di Abramo avuti da due donne diverse, Sara la moglie legittima madre di Isacco capostipite degli ebrei e Agar la schiava egiziana madre di Ismaele considerato il capostipite delle popolazioni arabe. Nelle vene dei due popoli scorrerebbe dunque lo stesso sangue di Abramo, anche se contaminato fin dall’origine.
Il legame con Abramo, rivendicato da Paolo per i cristiani, è di tutt’altra natura, fondato unicamente sulla fede del grande patriarca. I cristiani sono considerati suoi figli solo se condividono la certezza di Abramo che Dio avrebbe mantenuto le sue promesse. Si tratta di un legame che viene addirittura contrapposto a quello determinato dal sangue.
“Religioni abramitiche”? La spiegazione che ho cercato di abbozzare è largamente lacunosa e certamente non risulta chiara a chi non conosce il testo biblico con tutte le risonanze emotive che suscita in un ebreo o in un arabo. Non nego la validità della definizione di religioni abramitiche, purché venga accompagnata o meglio, preceduta da un’ambientazione culturale e religiosa adeguata. Con queste premesse è per lo meno rischioso mettere in circolazione come dati largamente acquisiti e condivisi, delle affermazioni molto complesse che hanno come risultato di aumentare la confusione già largamente diffusa non solo tra quelli che una volta erano definiti brutalmente “rudes”.
Ecco perché mi sono sentito in dovere di chiedere al direttore di Avvenire una chiarificazione su quella frase esplosiva buttata lì con indifferenza tra i piedi della gente. Gente che legge il quotidiano cattolico in numero crescente in controtendenza agli altri quotidiani italiani. È motivo di gioia per chi crede nel valore della stampa, ma è anche occasione per riflettere sulla responsabilità di fronte ai lettori e soprattutto verso la verità.
 
Una lettera cestinata
Mi aspettavo un cenno di comprensione verso il problema che avevo evidenziato, anche se avevo superato i fatidici “1500 caratteri spazi inclusi”, vista l’importanza dell’argomento. Ma quando spedivo il messaggio erano esattamente le 18:41 del 23/08/2016 e non potevo pensare che poche ore dopo un terribile terremoto avrebbe sconvolto la vita di tante persone e monopolizzato le informazioni e i commenti di tutti i mezzi di comunicazione.
Non potevo far altro che rispettare anch’io la priorità delle notizie, ma senza lasciare sepolto sotto le macerie il problema che mi stava a cuore. E sono contento anche perché il tragico evento ha fornito al direttore di Avvenire un alibi validissimo che mi impedisce di metterlo sul banco degli imputati. Spero che, ritornata una certa normalità nelle informazioni si possa dedicare un po’ di attenzione a temi di teologia pratica. Non auspico la censura su affermazioni che non condivido, ci mancherebbe altro! Chiedo solo che ad un punto di vista se ne affianchino anche altri perché i lettori possano rendersi conto per lo meno della complessità di certi problemi.
Con questo, caro Direttore, non le chiedo di pubblicare le mie considerazioni. Riconosco di essere un biblista ruspante che non ambisce i titoloni né usa il linguaggio forbito degli ambienti accademici. Ci sono sul mercato molti colleghi che condividono le mie idee e sono anche capaci di esporle in modo “teologicamente corretto”. Sono sicuro che anche lei ne conosce qualcuno e non farà fatica ad ottenere la loro collaborazione. Quello che conta, sono le idee non tanto chi le espone, anche se un nome famoso può facilitare la loro diffusione.

sabato 8 ottobre 2016

IL PRIMO “MISSA EST”

LO HA DETTO GESÙ

Ci teneva molto a fare quella cena con gli amici che si era scelto. Gesù aveva indicato personalmente il luogo e aveva dato l’incarico a due apostoli fidati, Pietro e Giovanni, di preparare la tavola in una stanza già addobbata per la festa di Pasqua. Doveva essere per ogni ebreo una cena speciale dove nulla era lasciato al caso. Ogni gesto, ogni parola, ogni boccone, ogni sorso di vino era carico di significati e doveva essere fatto in un momento preciso indicato da un ordinamento che aveva finito per indicare la stessa cena, Era il “sèder” nome che è rimasto fino ad oggi nella tradizione ebraica.
In questa ritualità così rigida, Gesù introduce degli elementi nuovi che assumono quindi un valore particolare. I racconti dei vangeli non si fermano a spiegare le varie fasi della cena. Erano conosciute da tutti. Ogni evangelista ricorda solo quegli aspetti di novità che rientrano nel profilo di Gesù che sta delineando. La cena rituale che celebra la Pasqua è soltanto lo sfondo che fa risaltare e mette nella giusta luce la continuità con la tradizione ebraica e la nuova realtà attuata da Gesù.

Le novità introdotte da Gesù. La prima:
il Maestro lava i piedi ai discepoli
La prima sorpresa è narrata da Giovanni: Gesù lava i piedi agli invitati. Era un rito abituale, un gesto nato per motivi pratici e poi diventato segno di accoglienza e di rispetto verso gli ospiti. Era tanto ovvio che non c’era bisogno di farlo oggetto di particolari prescrizioni. Non era certo il padrone di casa che provvedeva personalmente alle abluzioni degli ospiti. Suo dovere era procurare il necessario alla bisogna e offrire spazio e tempo per espletare il tutto. In un’occasione Gesù aveva rinfacciato senza peli sulla lingua ad un fariseo la mancanza di questo gesto di buona educazione e aveva lodato la donna che vi aveva provveduto diversamente.
Il gesto compiuto da Gesù in modo insolito, contro le consuetudini aveva colto di sorpresa gli apostoli. Il solito Pietro reagisce tra l’imbarazzo generale ed esagera con le sue proteste costringendo Gesù a spiegare il significato di quanto aveva fatto: era un esempio del servizio che i suoi discepoli dovevano seguire nei rapporti tra di loro.

Seconda novità:
Gesù manda via Giuda
Ma le sorprese non erano finite. La cena che doveva rievocare la tragedia vissuta dagli Ebrei tanti anni prima diventava lo scenario del dramma che avrebbe travolto Gesù e gli apostoli quella stessa notte. L’ombra del tradimento prendeva la forma di uno dei presenti. Il suo nome non viene pronunciato ma è indicato con un gesto che esprime amicizia e rispetto che non impediscono però a Gesù di usare parole decise che non ammettono replica. Il traditore smascherato deve abbandonare la cena che continuerà senza di lui.
Il gesto di familiarità consisteva nell’offerta di un pezzo di pane azzimo intinto in qualche preparato liquido o fatto con ingredienti ridotti in pezzetti. Sulla tavola si trovavano cibi differenti ma rispondenti alle prescrizioni del menu descritto nel sèder, l’ordinamento della cena di Pasqua. C’era l’uovo sodo, una zampa di capretto, delle erbe amare, un gambo di sedano, il pane azzimo sotto forma di gallette tondeggianti rigide o morbide (matzot) e infine il preparato semisolido fatto con frutti diversi detto in ebraico charòset. Il pezzo di pane strappato dalla galletta o cialda veniva così insaporito intingendolo nel charòset. A completare il menu  era presente anche il vino che si doveva bere in momenti fissati dall’ordinamento della cena.
Naturalmente il racconto di Giovanni presuppone tutte queste informazioni che per noi sono necessarie per capire il significato di un gesto che non ci è abituale. L’esclusione di Giuda Iscariota (in ebraico Ish Qeriot cioè Uomo di Qeriot?) dal proseguimento della cena è dovuta all’incompatibilità del suo comportamento con quanto Gesù stava per fare con gli altri apostoli. Giovanni non lo dice e si dilunga a riferire il dialogo con gli undici rimasti, nel quale Gesù manifesta i suoi sentimenti più intimi.
Gli altri evangelisti ricordano l’annuncio del tradimento ma tralasciano l’allontanamento di Giuda per concentrare l’attenzione sul pane e sul vino con le parole di Gesù che ne spiegano il nuovo significato che assumono. I quattro racconti sembrano integrarsi tra di loro riferendosi ad un unico avvenimento presentato però con intenti diversi. Letta in questa prospettiva, la cena risulta nettamente divisa in due parti dall’ordine dato a Giuda di allontanarsi al più presto. Anche il particolare del boccone di pane azzimo insaporito con il charòset fa pensare al pane semplice, senza condimenti, sul quale Gesù pronuncerà quelle parole misteriose prima di distribuirlo ai discepoli.

Terza novità:
riduzione del menu al pane e al vino
Pane e vino sono gli alimenti comuni alle due parti della cena e ne evidenziano la continuità, ma allo stesso tempo diventano i protagonisti unici nella seconda parte del banchetto determinandone l’originalità. Il comportamento di Gesù, inserito in un rituale celebrativo piuttosto rigido, se ne discosta non come contrapposizione ma come sviluppo di elementi precedenti.
Accogliendo l’invito del Maestro di “fare memoria” (la parola ebraica zikkaron era carica di significati evocativi!) i discepoli hanno concentrato la loro attenzione soprattutto sugli elementi innovativi portati alla cena di Pasqua, cancellando dal menu previsto dal sèder tutte le portate, ad eccezione del pane e del vino considerati nella nuova prospettiva indicata dalle parole di Gesù. Si manteneva così l’idea del banchetto con la presenza del Maestro, ma diventava sempre più evidente che non si trattava di una cena finalizzata al nutrimento del corpo.

Le prime “cene-ricordo” fatte dai cristiani
Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto descrive una situazione in cui questa consapevolezza non si era ancora affermata. Alla cena comune ognuno si portava il proprio menu che non condivideva con gli altri evidenziando così le differenze sociali tra ricchi e poveri. A conclusione dell’incontro conviviale si “faceva memoria” di quanto aveva fatto e detto Gesù, dopo di che ognuno tornava alla propria casa, chi a stomaco pieno e chi a stomaco vuoto. Non era facile, in quelle condizioni, distinguere tra il pane inzuppato nelle varie salse più o meno piccanti e il pane insipido che Gesù aveva detto essere il suo corpo.
Paolo taglia corto. Dato che quando siete un po’ brilli fate fatica a riconoscere il corpo di Cristo, mangiate e bevete a casa vostra – scrive ai cristiani di Corinto – e poi, quando avete smaltito la sbornia, radunatevi pure ma solo per fare memoria della cena del Signore. E conclude con una minaccia pesante di condanna per chi non tiene conto delle sue indicazioni.
È chiaro che Paolo non è mosso da preoccupazioni moralistiche per evitare la contaminazione del corpo di Cristo a contatto con i cibi. Lo stomaco ingombro  – lo sapevano tutti anche allora – appesantisce la mente, annebbia il cervello e rallenta i riflessi rendendo ancora più difficile riconoscere in quel pane una presenza accolta per fede. Paolo non prescriveva ricette mediche (“una pasticca al mattino a digiuno”) ma applicava semplicemente il criterio che usava riguardo ai cibi, compresa la carne offerta nei sacrifici agli idoli.
Chi è nato prima del Concilio Vaticano secondo ricorderà certamente la rigidità con cui si interpretava il digiuno eucaristico, basandosi proprio sul rispetto dovuto alle “sacre specie”. Si spiegano così anche le resistenze che bloccano ancora molti cattolici impedendo di ricevere sulla mano il pane consacrato.

Sèder e Messa a confronto
Tralasciando altre considerazioni, riprendo il confronto tra i due termini con cui sono identificati la cena pasquale ebraica e la cena del Signore della liturgia cattolica. La parola ebraica sèder è un termine generico e indica una serie di indicazioni da seguire per compiere un’azione complessa e può riguardare la celebrazione di festività religiose. Nell’uso si è venuto ad identificare con la festa più importante, la Pasqua, fino a diventare quasi un suo sinonimo.
Nel caso della celebrazione cattolica, il termine messa, originato forse da una parola latina intesa come “commiato” o “saluto di congedo” indicava l’atto conclusivo dell’incontro di preghiera dei fedeli. Quando il popolo ha perso la familiarità con la lingua latina ha però conservato nella memoria il suono di quella parola, l’ultima che sentiva pronunciare dal sacerdote. Il passo ad indicare con quel nome tutto quello che precedeva era inevitabile ed è stato compiuto con le conseguenze che sperimentiamo ancora oggi.
La storpiatura di espressioni latine e greche è un fenomeno linguistico noto e frequente nella lingua italiana e nei vari dialetti, basti pensare alla “befana” (da “epifania”) o all’espressione “andare in visibilio” (dal Credo: “visibilium omnium et invisibilium” [Dio creatore] di tutte le cose visibili e invisibili). Cercando sulla rete, si possono trovare numerosi esempi di storpiature di frasi latine sentite pronunciare nella liturgia, ma ognuno potrebbe aggiungerne altre pescate nei ricordi personali. Tra quelli che mi vengono in mente dalla mia infanzia è il modo di manifestare la fiducia nella protezione materna di Maria da parte delle vecchiette che cantavano in piemontese: “Ca tempesta (cioè, grandine) pura, mi la paro tuta” [può anche grandinare, io la raccolgo tutta] che traduceva il latino dell’Ave maris stellavitam praesta puram, iter para tutum” [concedi una vita pura, prepara un cammino sicuro].
La parola “messa” non storpiava il suono ma il significato di ciò che voleva indicare. Non meraviglia che ciò sia avvenuto in tempi lontani per opera di un popolo che stava forgiando la propria lingua. Meno comprensibile che in una società come la nostra che rifiuta termini chiarissimi e ben stagionati come spazzino, bidello, cieco, ecc. sostituendoli con espressioni tipo: netturbino sostituito a sua volta da operatore ecologico, oppure personale parascolastico, o ancora ipovedente, oppure con diversamente abili ecc. non si percepisca l’inadeguatezza di una parola ad indicare l’oggetto a cui è stata abbinata, come appunto nel caso della messa.
      Non mi illudo che si arrivi a cambiare il vocabolario. Mi basterebbe anche solo che si avesse il coraggio di dire a chi non condivide le nostre convinzioni sul pane e sul vino che mangiamo e beviamo nella cena del Signore: “Caro amico, ci salutiamo qui. Adesso lasciaci perché stiamo per fare una cosa che sarebbe troppo lungo spiegarti. Mi sembra una mancanza di rispetto verso di te, invitarti a vedere noi che mangiamo e beviamo mentre tu stai a digiuno”.
È evidente che questo discorsetto non va fatto solo ai musulmani ma anche a tutti quelli che, battezzati o no, non credono più o non hanno mai creduto a quanto ha detto Gesù su quel pane e sul vino dopo aver imposto a uno degli invitati di abbandonare immediatamente la compagnia: “Torna a casa tua, per te l’incontro è terminato” Ite, missa est!