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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 13 febbraio 2016

ASCENSIONE NON È ASSUNZIONE


L’importanza delle parole

ASCENSIONE NON È ASSUNZIONE

 Qualcuno penserà che è un’idea fissa la mia preoccupazione di usare le parole rispettando il loro significato. Lo scrivevo a proposito del termine “matrimonio” con cui ci si ostina a voler indicare una realtà che non corrisponde al significato della parola e invitavo a trovare, o inventare se ce ne fosse bisogno, un’espressione che aiutasse a capire di che cosa si tratta.

      Lo stesso problema salta fuori con altre parole oggi molto di moda. Mi fermo solo al termine “gay” che viene sbandierato con orgoglio dai diretti interessati che invece rifiutano con sdegno l’uso di altre parole che definiscono la stessa identica condizione ma alle quali viene attribuita una connotazione derisoria e discriminante.
      In termini tecnici si parla di “denotazione” di un termine quando ci si riferisce alla realtà in se stessa indicata dalla parola in questione, mentre si definisce “connotazione” il significato che le viene attribuito dall’uso comune in un determinato ambiente e in una certa epoca. Potremmo definirlo un “valore aggiunto” dovuto a sensibilità culturali condivise o personali.
       Generalmente queste ambiguità di significato interessano oggetti o azioni che si riferiscono alla sfera del sesso o alle funzioni “secretive” del corpo o a parti anatomiche ma possono estendersi anche ad altre situazioni di tipo culturale. Possono anche investire il linguaggio religioso, però in questo caso non parlerei di sensibilità quanto piuttosto di ignoranza. Però gli effetti dal punto di vista della comunicazione sono gli stessi: trasmettono un messaggio sbagliato. E le conseguenze possono essere disastrose.
       Ecco perché proprio questa mattina sono sobbalzato sulla sedia quando ho letto a pag. 2 del Corriere della sera che una delle differenze teologiche tra la Chiesa cattolica e le Chiese orientali è il dogma “dell’ascensione di Maria”. Se fosse così non ci sarebbe da preoccuparsi semplicemente perché questo dogma non è stato mai dichiarato in questi termini. Il dogma mariano si riferisce alla “Assunzione” di Maria in cielo. “Ascensione” è quella di Gesù e non è un dogma perché si trova descritta nel vangelo ed è patrimonio comune di tutte le chiese cristiane, al di là delle interpretazioni date al racconto.
      Due parole simili nel suono ma di significato molto diverso. Ascensione indica un movimento verso l’alto compiuto per iniziativa del soggetto che sale. Assunzione indica un soggetto passivo che è stato invitato da qualche altro ad accedere ad un incarico o ad entrare in qualche luogo. Anche l’uso comune del termine assunzione dovrebbe chiarire ogni equivoco.
      Dispiace sinceramente che un errore così banale si sia infiltrato in due pagine ricche di contenuti validissimi per capire i significati di un evento straordinario come l’incontro di papa Francesco con il patriarca di Mosca Kirill. La mia osservazione può apparire un bizantinismo (a proposito di chiese orientali…). In realtà, a furia di usare le parole in modo approssimativo si può arrivare a creare convinzioni preoccupanti dal punto di vista teologico, per rimanere nel campo che mi interessa.
      Applicando a Maria le stesse categorie che si riferiscono a suo figlio Gesù si corre il rischio di metterli sullo stesso piano fino a scambiarne i ruoli. Cosa che è accaduta all’impaginatore del foglietto domenicale delle Paoline di domenica 7 febbraio che in ultima pagina ha scritto il titolo: “Gesù misericordioso come Maria”. Innocente scambio di ruoli? O peggio ancora, nessuno ci ha fatto caso?
      Eppure qualche fratello di fede “protestante” si è sentito in dovere di precisare che quando nel vangelo si legge che “Maria è piena di grazia” si deve intendere che è stato Dio a riempirla di grazia. Precisazione ovvia, si direbbe, se non ci fosse stato (solo nel passato remoto…) qualcuno che non si era reso conto del valore delle parole.

 

giovedì 11 febbraio 2016

LA BIBBIA INSEGNA...


LA BIBBIA INSEGNA...

 

Fatti di cronaca recenti dovrebbero far riflettere seriamente tutti quelli che hanno a cuore l’educazione dei giovani. Di fronte a certi comportamenti dovremmo chiederci se aiutiamo davvero le nuove generazioni ad affrontare la vita reale o se invece le lasciamo crescere in modo selvaggio, guidate solo dall’istinto che si presenta sotto la maschera della libertà.

      Non posso e non voglio giudicare i protagonisti del dramma che ha spinto una ragazzina a gettarsi dalla finestra non riuscendo più a sopportare gli atti di bullismo di cui era vittima. Mi auguro che la famiglia, come la scuola, abbiano fatto tutto il possibile per aiutare la ragazza ad inserirsi nella società.

Non spetta a me dare giudizi sulle responsabilità delle persone. Però penso che sia doveroso riconoscere che il gesto disperato denuncia il fallimento di un’educazione che non ha saputo preparare i giovani ad affrontare la vita reale. Non ha preparato la vittima a reagire ai soprusi, come non ha educato i bulli a rispettare i deboli. Anzi ha coltivato ed esaltato la violenza elevandola alla dignità di virtù fino ad arrivare al disprezzo di chi non può o non vuole usare i muscoli per far valere i propri diritti.

Nel post precedente avevo commentato con soddisfazione le dichiarazioni di un campione dello sci a proposito dell’educazione severa che aveva ricevuto e alla quale attribuiva i successi ottenuti. Era così convinto della validità del metodo educativo usato nei suoi confronti che continuava ancora a cercare nelle critiche e nei rimproveri gli stimoli per un miglioramento delle sue prestazioni.

Avevo rilevato uno stretto legame con uno dei testi della Bibbia (Siracide 4,13-14) che si riferiscono all’educazione nell’ambito familiare, come usava nel mondo antico dove le scuole erano riservate a pochi.

Nello stesso libro si ritorna sul tema nel cap. 30 con espressioni che oggi sembrano inaccettabili. Amore e frusta giustamente ci sembrano incompatibili. Però il rifiuto delle punizioni fisiche è andato di pari passo con l’eliminazione di tutto ciò che può sembrare gravoso per i figli che devono essere accontentati nel soddisfare i loro capricci. Si ammette l’eccezione solo nel caso in cui non vogliano sottostare ai dettami imposti dalle mode correnti. Penso che tutti abbiamo assistito a scene in cui le mamme, per non sembrare arretrate, insistevano perché il figlioletto facesse qualcosa di assolutamente superfluo e per cui il pargoletto non dimostrava il minimo interesse.

Anche a costo di far inorridire qualcuno, invito a riflettere sul significato e sul valore che avevano esortazioni come queste in un mondo organizzato con criteri di violenza: “Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta per lui, per gioire di lui alla fine… Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio… Chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite, a ogni grido il suo cuore sarà sconvolto… Vezzeggia il figlio ed egli ti riserverà delle sorprese… Non concedergli libertà in gioventù, non prendere alla leggera i suoi errori…” (Siracide30,1-13)

La preoccupazione di evitare al figlio una morte violenta non era un’esagerazione per giustificare i castighi severi, visto che Deuteronomio 21,18 prevedeva la lapidazione per i figli caparbi e ribelli. In quei tempi lontani certamente non veniva intesa come una battuta di spirito l’affermazione: “se lo percuoti con il bastone non morirà” (Proverbi 23,13). Anche se noi la interpretiamo come espressione di sadismo, non era altro che una presa di coscienza di fronte alla cruda realtà della vita quotidiana che il figlio avrebbe dovuto affrontare.

Sono passati molti anni da quei secoli lontani che continuiamo a considerare selvaggi confrontati con la civiltà che pensiamo di aver costruito. Ma la realtà è diversa da quella dei nostri sogni. Basta leggere certi fatti di cronaca senza pregiudizi culturali per rendersi conto che, a parte una maggiore sensibilità di fronte ai comportamenti, poco è cambiato nelle manifestazioni di violenza che continuano a scandire in modo drammatico le nostre giornate.

Episodi di violenza sia all’interno delle famiglie che nelle scuole, che vedono protagonisti proprio quelli che dovrebbero essere gli educatori (gli ultimi sono di queste ore – 4 febbraio 2016 – le maestre di un asilo-nido), provocano l’indignazione generale che spinge inconsciamente ad identificare la severità con i metodi violenti denunciati.

A questo punto è inevitabile che ci si senta in dovere di condannare in modo netto un’educazione considerata repressiva solo perché cerca di mettere dei limiti ad una libertà sfrenata. Il rifiuto dei metodi di costrizione fisica si trasforma così nel rifiuto delle stesse motivazioni che invece dovrebbero guidare ogni educatore. In altri termini, rifiutare frusta e bastone non significa eliminare ogni controllo di quella violenza che, con buona pace di tanti pedagogisti all’avanguardia, continua ad essere così radicata anche nelle nuove generazioni.

È questa la lezione presente in tutta la Bibbia che può essere letta come la storia dei tentativi faticosi compiuti dall’umanità per diventare davvero libera di realizzare il sogno di felicità che l’ha sempre animata. Gli autori biblici interpretano gli eventi drammatici che hanno contrassegnato le vicende umane come interventi severi di un padre che vuole portare i figli ad essere i protagonisti responsabili della propria vita.

Questo concetto è espresso nella Lettera agli Ebrei (12,4-11) per incoraggiare i cristiani in un momento difficile, rassicurandoli che si tratta di una prova che produrrà “un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (12,11).

Ma nella Bibbia c’è anche qualcuno che ha fatto un passo avanti e che ha avuto il coraggio di affermare che solo condividendo il punto di vista di Dio sull’uomo si ha la possibilità di realizzare quel mondo che tutti sogniamo e che rincorriamo su strade sbagliate: è Geremia. Il linguaggio con cui questo profeta (31,31-34) trasmette il suo messaggio è chiaramente derivato da una cultura e da un’epoca particolare in cui aveva senso parlare di alleanza con Dio, di peccato e di perdono oppure di circoncisione riferita al cuore (4,4).

Il messaggio della Bibbia in fondo è proprio questo: un’educazione esigente è un valore irrinunciabile per la crescita dell’umanità verso quella libertà responsabile che è parte integrante del progetto di Dio. È solo un abbozzo della risposta ad un problema angosciante che torna a proporsi ad ogni generazione: come essere felici? L’esperienza da cui nasce la Bibbia vuole rassicurarci che è possibile realizzare questo sogno ma come frutto di un impegno costante che richiede rinunce e fatiche.