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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

mercoledì 3 agosto 2016

PARLIAMO DI VACCHE


VACCHE MAGRE E VACCHE GRASSE


 È una delle tante immagini passate dalla Bibbia al linguaggio popolare. L’espressione indica un periodo di prosperità economica che succede ad uno di recessione, o viceversa. Il riferimento biblico è alla storia del sogno del faraone interpretato dall’ebreo Giuseppe diventato poi vice re dell’Egitto (Genesi 41,1-36). È il racconto più celebre di una situazione che si è ripetuta migliaia di volte nel mondo antico e testimoniata spesso nella Bibbia. La scarsità di cibo o addirittura la sua mancanza hanno condizionato pesantemente lo sviluppo delle civiltà.
Tra gli Ebrei questi eventi erano interpretati come una risposta del loro Dio ai comportamenti del popolo. Questo modo di spiegare i fenomeni naturali era comune in tutte le religioni ma per gli Ebrei si distingueva per il legame con quella che era presentata come l’alleanza, cioè il patto stabilito da Dio con Mosè. Se il popolo “stava ai patti” era premiato da Dio con la prosperità e l’abbondanza: era in pace, Shalom. Se veniva meno agli impegni assunti scattava automaticamente la punizione minacciata.
I profeti si presentano al popolo come gli ispettori con l’incarico di verificare la conformità della vita dei loro contemporanei con gli impegni assunti nell’alleanza con Dio. Si identificano talmente con il compito che sentono di aver ricevuto, da parlare in prima persona come se fossero lo stesso Dio. Questo accorgimento letterario rende spesso i loro interventi appassionati e coinvolgenti. Mi pare significativo un intervento del profeta Amos vissuto nell’VIII secolo a. C. La sua vicenda tocca anche il tema dell’immigrazione. Infatti il profeta, originario del sud di Israele, proclama i suoi messaggi nel nord dove è ritenuto un estraneo e viene invitato senza mezzi termini a ritornare nel suo paese di origine.
In occasione  di una delle tante carestie, Amos dà voce a Dio interpretando gli avvenimenti alla luce della fede con una descrizione assolutamente realistica scandita in quattro momenti dal rimprovero: “non siete ritornati a me”. Carestie, pestilenze e guerre non sono presentate come la vendetta di una divinità irosa ma come una sterzata violenta che avrebbe dovuto riportare il popolo sulla strada giusta.

“6«Eppure, vi ho lasciato a denti asciutti
in tutte le vostre città,
e con mancanza di pane
in tutti i vostri villaggi;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
7«Vi ho pure rifiutato la pioggia
tre mesi prima della mietitura,
facevo piovere sopra una città
e non sopra l’altra;
un campo era bagnato di pioggia,
mentre l’altro, su cui non pioveva, seccava.
8Due, tre città andavano barcollanti
verso un’altra città per bervi acqua,
senza potersi dissetare;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
9«Vi ho colpiti con ruggine e carbonchio,
vi ho inaridito i giardini e le vigne;
i fichi e gli olivi li ha divorati la cavalletta;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
10«Ho mandato contro di voi la peste,
come un tempo contro l’Egitto,
ho ucciso di spada i vostri giovani,
mentre i vostri cavalli diventavano preda;
ho fatto salire il fetore dai vostri campi
fino alle vostre narici;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.” (Amos4,6-10).

Evidentemente il profeta non aveva peli sulla lingua e questo può spiegare perché desse fastidio a molti. La citazione è molto lunga e va contro le “regole” della comunicazione moderna. Ma cosa eliminare da questo testo di Amos per renderlo “gradevole” ai nostri palati delicati? Le immagini usate descrivono il dramma della siccità e della carestia in modo impareggiabile. Amos riesce ad infilare tutti i drammi correlati tra di loro a partire dalla siccità per arrivare alla peste e alla spada fino al fetore dei cadaveri insepolti che entra nelle narici. Non manca l’ironia corrosiva che apre l’elenco con la battuta sui denti che sembra preludere le nostre preoccupazioni per l’igiene dentale. Il testo ebraico all’inizio del v. 6 dice: “vi ho dato la pulizia dei denti”. Grande! Una pagina che merita di essere letta e riletta, non per il gusto del macabro ma per apprezzare la forza delle immagini e per l’interpretazione religiosa data dal profeta.

Le vacche magre ingrassano i ricchi

Nel post precedente avevamo visto il degrado dal fare provviste per sopravvivere al fare la guerra per motivi di potere. Amos denuncia un altro aspetto dell’imbarbarimento dei rapporti, non più tra popoli diversi ma all’interno dello stesso popolo. La distinzione tra classi sociali accentuata con l’introduzione della monarchia (1 Samuele8,10-18) aveva creato un piccolo gruppo di ricchi contrapposto alla maggioranza composta prevalentemente da poveri. Questa situazione di squilibrio sociale poteva essere tollerabile in condizioni normali ma diventava esplosiva quando i poveri non avevano più nulla da mangiare mentre i ricchi avevano ancora provviste nelle loro dispense.
Era cosa naturale per i poveri affamati cercare un aiuto a due passi da casa prima di rivolgersi a gente estranea. Si poteva contare sulla vicinanza fisica ma anche su di una solidarietà fondata sull’appartenenza allo stesso popolo. Chi aveva ancora scorte alimentari era anche disposto a condividerle ma senza correre troppi rischi. Capitava così che le poche risorse economiche dei poveri finivano nelle casse dei ricchi che studiavano ogni mezzo, lecito o no, per trarre un vantaggio dalla situazione di emergenza.
Amos denuncia la classe dirigente che aumenta le proprie ricchezze racimolando in modo subdolo denaro e piccole proprietà dalle mani dei poveri per poi sperperarle in banchetti e in un lusso sfrenato per soddisfare capricci e vanità delle proprie donne (Amos2,6-8; 3,15-4,1; 5,11-12; 6,4-6; 8,4-6). Il quadro è desolante e purtroppo non è l’unico dello stesso tipo delineato nella Bibbia.

“Dateci il grano perché possiamo mangiare e vivere!”

      La richiesta è esplicita ed è definita “un grande lamento da parte della gente del popolo” (Neemia 5,1). Sono passati tre secoli dalle invettive di Amos contro gli sfruttatori dei propri concittadini da parte delle autorità. Chi richiede il cibo sono gli Ebrei ritornati a Gerusalemme dall’esilio a Babilonia e che avrebbero dovuto ricostruire la città. Si tratta di un’opera pubblica di interesse nazionale e quindi ci aspetteremmo un piano finanziario adeguato. Invece tutti i lavori sono bloccati.
Lo viene a sapere un certo Neemia, discendente da una famiglia di Ebrei deportati che non erano ritornati a Gerusalemme. Costui aveva fatto carriera in quello che ormai era diventato l’impero persiano, ma aveva sempre mantenuto un legame affettivo per la patria d’origine. Venuto a conoscenza delle condizioni precarie in cui si trovavano i Giudei, ottiene dal  re Artaserse l’incarico di organizzare i lavori di ricostruzione della città. Naturalmente l’arrivo di un estraneo con un incarico così importante non è ben visto dalle autorità locali che lo osteggiano in tutti i modi.
Non possiamo seguire tutte le vicende narrate come in un diario nel libro omonimo. Ci fermeremo solo su come Neemia sia riuscito a superare lo sfruttamento vergognoso del popolo da parte di coloro che aveva incaricato di dirigere i lavori.  I lavoratori erano costretti ad impegnare campi, vigne e case in cambio di cibo durante la carestia (5,3). Per pagare le tasse al governo centrale avevano dovuto ipotecare i loro beni (5,4). Addirittura erano arrivati al punto di vendere come schiavi i propri figli ai responsabili dei lavori che pure erano Giudei come loro e si dichiaravano fratelli (5,5).
L’intervento di Neemia è molto fermo. La sua denuncia si fonda su un ragionamento umano (5,6-8) confrontato e convalidato con la motivazione religiosa (5,9.12-13). Il risultato ottenuto è stata la restituzione dei pegni e la remissione volontaria di tutti i debiti. In questa vicenda, che sembra raccontata in presa diretta per la vivacità della narrazione, si intrecciano molti temi che riguardano la fede religiosa, la politica, la sociologia, l’economia, l’identità nazionale. Quest’ultima avrà un risvolto xenofobo di intolleranza nelle battute finali del libro (13,1-3.23-28), dove il protagonista si sente costretto a maledire, picchiare e strappare i capelli (13,25) a chi favoriva rapporti amichevoli con gli stranieri.

Un idealista deluso

Neemia (Nechemyah = YHWH consola) è un personaggio complesso, forse un po’ snobbato dai commentatori della Bibbia che sembrano interessati unicamente ai capitoli 8 e 9. Certamente non è agevole impostare una Lectio divina su testi che si presentano come elenchi anagrafici (cap. 11) o liste delle ditte appaltatrici dei lavori di ricostruzione delle mura (cap. 3) o ancora come resoconto di intrighi loschi contro i Giudei (cap. 4). Eppure sono testi che aprono delle finestre sulla vita reale nella sua banalità, con le sue miserie, con gli entusiasmi e le delusioni. Trovo commovente le descrizione degli operai che con una mano lavorano e con l’altra impugnano la spada per difendersi dagli attacchi dei nemici (4,10-17). Sono sostenuti da una certezza: “Dio combatterà per noi” (4,14) ma intanto si organizzano di tutto punto come se la salvezza dipendesse unicamente da loro.
Ma noi cerchiamo spasmodicamente l’intervento straordinario di Dio per motivi di comodo, mascherato maldestramente da fiducia nella Provvidenza. Preghiamo Dio perché intervenga aprendoci davanti le acque del mare per farci passare all’asciutto e aspettiamo che ci mandi la manna o le quaglie, pronti anche a lamentarci perché non sono spennate e dobbiamo arrostirle dopo aver anche dovuto accendere il fuoco. Pretendiamo il servizio completo ma questo non rientra nei piani di Dio che ci vuole protagonisti della costruzione di un mondo giusto perché ci ritiene capaci di farlo. Dio si fida di noi nonostante le nostre pigrizie e incongruenze.
Nel nostro libro troviamo impastati tutti questi ingredienti che ci offrono uno spaccato della vita reale di un certo periodo della storia di Israele. Neemia è Giudeo di famiglia ma cresciuto alla corte persiana. È legato alle sue origini ma ne denuncia i limiti che cerca di superare non con belle teorie ma con l’impegno personale, pagando di tasca propria (5,14-19).
Tanto impegno sembrava aver prodotto i suoi frutti tanto che Neemia fece ritorno nella capitale dell’impero persiano convinto di aver sistemato tutto per il meglio.  Invece erano riaffiorati gli interessi personali, i favoritismi. Neemia ritornò a Gerusalemme per costatare il fallimento, almeno in parte, delle sue riforme. Non si trattava di questioni teoriche o di discussioni teologiche. Semplicemente “le porzioni dovute ai leviti non erano state date” (13,10) e il grande riformatore fu costretto a riorganizzare la raccolta “del frumento, del vino e dell’olio” (13,13) affidandone la distribuzione “a uomini fedeli” (13,13).
Anche la mancata osservanza del riposo del sabato è descritta nei suoi aspetti più commerciali e organizzativi. La stessa attenzione alla concretezza è data ai rapporti con le popolazioni straniere che, come abbiamo visto, spinge “l’uomo venuto da lontano” su posizioni xenofobe.

Concludo con un’osservazione interlocutoria sull’insieme dei libri che compongono la nostra Bibbia: è perfetta nel descrivere una società imperfetta. È il risultato sorprendente del lavoro di intere generazioni che ci hanno narrato le loro esperienze, i loro sogni, le speranze, le delusioni, la loro fiducia in un Dio che nessuno ha mai visto, un Dio così umano e così diverso, un Dio che accetta le contestazioni e che affida all’uomo tutto se stesso nella vita quotidiana, che può essere riscattata dalla banalità solo se riconosce e accetta la sua presenza.