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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

venerdì 26 dicembre 2014

I 10 COMANDAMENTI SECONDO BENIGNI


     C’era da aspettarselo.  È andato tutto secondo copione. A partire dalla curiosità suscitata dall’evento pubblicizzato come pochi altri, alla risposta dei telespettatori superiore ad ogni più rosea previsione, dai commenti entusiasti di gerarchie ecclesiastiche alle critiche astiose di ambienti anticlericali o benpensanti, dalla non celata soddisfazione di dirigenti RAI per i dati dell’Auditel al compenso dato al giullare, ritenuto da molti scandaloso e da altri addirittura inferiore al dovuto. Visto che 4 milioni di euro versati a Benigni, divisi per 10 milioni di spettatori dichiarati, riducono la spesa pro capite a soli 40 centesimi di euro, non sembra davvero così esagerato il costo di una trasmissione che ha risparmiato drasticamente sulla scenografia, ridotta all’osso.

Ma veniamo alla trasmissione. Mi pare che la soddisfazione compiaciuta di certi ambienti religiosi, che l’hanno interpretata come una testimonianza di fede, quasi una “conversione” di un comico spesso dissacrante, sia del tutto fuori luogo. Si è trattato di uno spettacolo straordinario basato quasi unicamente sulla parola con la rinuncia quasi totale degli elementi sui quali sono costruite le trasmissioni televisive. La vera protagonista è stata la parola, ma attenzione, una parola alla quale l’interprete ha saputo dare tutta la forza che le è propria. Ed è riuscito a comunicarla a chi, forse per la prima volta, la sentiva come qualcosa di vivo e non come ripetizione stanca e insipida di cose risapute.

Penso che sia stato questo il vero merito di Benigni. Si è immedesimato nella parte, l’ha condivisa e l’ha comunicata in modo convincente e coinvolgente. Tanto da farla apparire una testimonianza di fede a spettatori che desideravano proprio questo. Ma è stata soltanto una “rappresentazione” della fede, cioè di quello che dovrebbe essere l’atteggiamento del credente di fronte ad una parola che in se stessa è sconvolgente. È questa la bravura di un attore: la capacità di rivivere, e far rivivere, ad ogni spettacolo il messaggio contenuto nel testo che interpreta. Non gli si chiede di credere, ma di far capire che cosa significa credere. E non è poco.

Da un annunciatore della fede, da un “predicatore”, invece ci si aspetta giustamente una “testimonianza” di vita e una coerenza di comportamenti, al di là del momento dell’annuncio. Ma penso che anche il predicatore non possa fare a meno della dote caratteristica dell’attore, cioè la capacità di comunicare, di far vivere la parola, di far emergere la ricchezza di messaggi che vuole trasmettere. Se non è così, il predicatore uccide la parola: è un assassino! Va contro il comandamento che dice:

NON UCCIDERE!

Quando ho sentito annunciare il “quinto” comandamento non sono sobbalzato sulla sedia, solo perché me lo aspettavo. Dico subito che la responsabilità dell’interpretazione non è di Benigni ma degli autori a cui si è ispirato. L’enunciazione tradizionale “Non uccidere” estende l’ambito dei comportamenti ad ogni azione che abbia come fine l’eliminazione della vita. Ma non è questo il significato del comandamento nel testo della Bibbia, che invece si riferisce ad un’azione ben specificata e delimitata, cioè “l’uccisione di un innocente”. Noi diremmo “un assassinio”. È questo il significato del verbo ebraico “ratsach” che viene usato nelle varie forme 49 volte nella Bibbia ebraica. Spesso viene associato alla pena inflitta a chi ha ucciso un innocente: la pena di morte!

È importante notare che quando si parla della pena di morte si usa un altro verbo, dal significato più generico (far morire = forma causativa del verbo morire) mentre per indicare l’uccisore è sempre usato il verbo che troviamo nel decalogo. Così in Numeri 35,19 si legge: “È il vendicatore del sangue che farà morire l’assassino: quando lo incontrerà, lo farà morire” in applicazione della “legge del talione” che prevedeva il principio: “vita al posto di vita” (Esodo 21,23). Per indicare altri modi di dare la morte si usano espressioni diverse, come “passare a fil di spada”, “lapidare”, “votare allo sterminio”, o si ricorre ad altri verbi dal significato generico (Giosuè 8,24 “harag”), tutte azioni ritenute non solo lecite ma addirittura doverose quando sono l’esecuzione di un ordine dato da Dio. Quindi per concludere si potrebbe dire che il comandamento espresso con quel verbo particolare “ratsach” difende la vita degli innocenti ma esige l’uccisione dell’assassino. Potrà anche dispiacere a chi è imbevuto della cultura imperante e che forse sperava di trovare nella Bibbia l’avallo delle sue idee. Ma la Bibbia va spiegata e capita per quello che effettivamente insegna e non può essere manipolata nemmeno per giustificare le cause più nobili,

Mi ha sorpreso (ma non più di tanto!) che in questa estensione di significato attribuito al comandamento che impone il rispetto della vita non si sia sentita una parola che indica l’uccisione di un essere umano che più innocente non si può: l’aborto. Sarà perché la nostra società lo ha derubricato classificandolo come asportazione con mezzi chimici o chirurgici di una escrescenza anomala della parete dell’utero. Definirlo “assassinio” è giudicato una provocazione dettata da fanatismo religioso, rigurgito di una mentalità ottusa oggi felicemente superata. Sia ben chiaro che con questo non dico assolutamente che il comandamento proibisca direttamente l’aborto. Si parla di altro, ma se si vuole spiegare un testo si deve prenderlo per quello che è non per quello che ci fa comodo. Come nel caso del comandamento che segue:

NON COMMETTERE ADULTERIO

Che sia questo l’oggetto del comandamento, è risaputo. Me l’hanno insegnato nel corso di esegesi negli anni ’50 del secolo scorso, l’ho ripetuto per quarant’anni quando è toccato a me insegnarlo. È innegabile che le diverse formulazioni inventate dai catechisti rivelavano un certo imbarazzo nel presentare ai ragazzi una situazione che non li riguardava. Al contrario la vita sessuale, a cui gli adolescenti erano tanto interessati, sembrava non avere nessuna importanza per la legge di Dio. Probabilmente i moralisti hanno pensato: “Per quale motivo un uomo vuole avere per sé la moglie di un altro? Per giocare a carte? Per avere una cuoca migliore? O per fare certi giochini che gli adulti hanno riservato a sé proibendoli ai ragazzi?”.

E allora hanno “esteso” la motivazione che sta alla base del comandamento a tutto ciò che può portare l’uomo a “rubare” ad un altro quello che gli era più caro: la sua donna. Se si controlla la sfera sessuale – devono aver pensato i moralisti – si elimina alla radice la causa che porta all’adulterio. Tutto qui. Niente macchinazioni segrete ma solo, se vogliamo, pigrizia intellettuale nel cercare la strada più facile da praticare per raggiungere un fine nobile. Peccato che ciò abbia comportato la non conoscenza della Bibbia, addomesticata a rispondere a domande non pertinenti. Con le conseguenze disastrose che sperimentiamo.

Non so se è chiaro che la chiesa cattolica (è di questa che sparlava Benigni) ha anticipato il metodo usato dalla cultura contemporanea nei riguardi del “non uccidere”. Da un caso particolare ben specificato si è allargata l’applicazione a situazioni che sono oggetto di leggi molto dettagliate presenti nella Bibbia ma non prese in considerazione nel decalogo. Basta anche una conoscenza superficiale del libro sacro per convincersi che si parla abbondantemente sia di sesso che di rispetto alla vita. Ma i dieci comandamenti affrontano temi limitati e precisi e in modo molto esigente.

Mi aspettavo che il tono solenne e perentorio usato in difesa della vita fosse presente anche quando il comico ha parlato dell’adulterio. Invece l’argomento lo ha fatto scivolare verso i registri interpretativi che gli sono più consoni: ammiccamenti, allusioni, mezze battute corrosive miranti a distrarre il pubblico e a minimizzare i drammi che il comandamento voleva evitare. Fino ad annunciare, anche se come proposta estrema dei Soloni della scienza, un uso terapeutico dell’adulterio. Il tutto in un clima diventato all’improvviso scherzoso che richiamava l’atmosfera pruriginosa del cabaret intellettualoide del secolo scorso.

Tutto presentato con una certa eleganza e con innegabile verve comunicativa che ha finito col prevalere nella valutazione positiva espressa da teologi e monsignori illustri. Mi sembra di ricordare che la Bibbia presenta un personaggio dotato di una grande abilità nel convincere la gente, proponendo cose meravigliose con argomenti suadenti. Qualcuno si è lasciato persuadere dai bei discorsi, e anche noi ne sappiamo qualcosa. Ci ha riprovato, anche servendosi di scenografie spettacolari, con un falegname di Nazareth, che però lo ha messo a tacere usando i suoi stessi argomenti. Alle parole della Bibbia, addomesticata ai fini del Grande Ingannatore, Gesù ha risposto con altre parole bibliche usate nel loro vero significato. Ed ha avuto la meglio.

È l’unico metodo valido per capire e apprezzare l’insegnamento che Dio ha voluto darci nelle pagine della Bibbia. Anche senza tuoni e lampi ma con parole che chiedono solo di essere capite e amate per diventare luce e guida della nostra vita.

giovedì 13 novembre 2014

LA BIBBIA SENZA PREGIUDIZI

TUTTI GLI ABITANTI DI…

 Quante volte abbiamo letto nelle descrizioni della Bibbia che a qualche avvenimento avevano preso parte “tutti gli abitanti della città” o “della regione” o addirittura “della terra”. Forse qualcuno avrà cercato anche di immaginare folle immense radunate per celebrare eventi eccezionali, stipate all’inverosimile negli spazi ristretti che forse aveva visto in qualche pellegrinaggio in Terra Santa.
Se pensiamo anche ai numeri che la Bibbia riporta quando parla di eserciti o di popoli descritti sempre con cifre a molti zeri, l’impressione che ne risulta giustifica il modo di dire diventato proverbiale quando si vuole indicare un numero spropositato di persone o anche di anni: dimensioni bibliche!
Il cinema ha trovato facile ispirazione da questa grandiosità per rappresentare scene spettacolari con movimenti di masse imponenti che davano corpo ai sogni di fantasie sfrenate che dagli autori si riversavano nella mente degli spettatori più sprovveduti. In questo modo si è costruito un mondo mai esistito nella realtà che doveva essere molto più modesta di come è stata rappresentata.
Faccio notare che i numeri gonfiati non riguardano solo la Bibbia ma coinvolgono tutta la storia antica. Basta pensare alle scene degli schiavi egizi costruttori delle piramidi senza ricorrere, come si è soliti fare, ai “seicentomila uomini… senza contare i bambini… e alla massa di gente promiscua” che avrebbe lasciato l’Egitto sotto la guida di Mosè!
L’uso del termine “tutto, tutti” è frequentissimo nella Bibbia. Non sempre però indica una totalità assoluta di tipo numerico, ma spesso ha valore qualitativo, cioè sottolinea quella che noi indichiamo con il concetto di “solidarietà” o, se vogliamo, di rappresentanza qualificata. Così quando leggiamo in 2 Re 23,1-3 che il re Giosia “salì al tempio con tutti gli uomini di Giuda, con tutti gli abitanti di Gerusalemme… con tutto il popolo dal più piccolo al più grande” non possiamo immaginare una totalità numerica che non avrebbe potuto trovare posto nel tempio. L’espressione significa soltanto che i presenti fisicamente rappresentavano anche gli altri che non avevano potuto intervenire. L’assenza non liberava dagli obblighi che i partecipanti all’assemblea si erano assunti. Oppure si dovrebbe ammettere che la popolazione della Giudea era formata da poche migliaia di persone.


TUTTA LA TERRA!
Noi usiamo il termine “terra” con diversi significati. Può indicare il suolo, il terreno oppure la proprietà di qualcuno o ancora una zona limitata con caratteristiche particolari, pensiamo alla “Terra dei fuochi” di cui si è parlato molto in questi mesi. Può anche indicare il mondo intero, come quando vediamo le foto della Terra riprese dal satellite oppure quando parliamo del sistema solare con i suoi pianeti. Perciò la parola “terra” in se stessa non ha un significato preciso. Questo lo si può ricavare soltanto dal contesto.
Lo stesso discorso vale anche per la lingua ebraica nella quale l’equivalente di “terra” è espresso con il termine “’erets” ma anche con “ ’adamah” quando significa il terreno o con “ ‘olam” se si vuole indicare il mondo intero. A sua volta “ ‘olam” può indicare anche quella che noi chiamiamo “eternità”. È soltanto il contesto che determina il senso da dare alla parola in quel testo preciso.
Se si traduce “terra” ogni volta che il termine ricorre nel testo ebraico della Bibbia si rende un pessimo servizio a quella che noi accettiamo come “parola di Dio”. La buona fede o l’ignoranza non bastano ad eliminare un fraintendimento che in qualche caso ha portato a conseguenze disastrose nell’interpretazione della Bibbia.
Ad esempio, quando nella Bibbia si parla di “terra promessa” penso che sia chiaro per tutti che non ci si riferisce a tutto il mondo, ma solo alla regione che noi oggi chiamiamo in modo improprio Palestina o anche Terra santa. Così quando leggiamo “terra dove scorre latte e miele” intendiamo lo stesso territorio detto altrove “terra promessa”. Si tratta sempre di una regione mai di tutto il mondo. Si potrebbero portare decine di esempi nei quali il termine ebraico “ ’erets” definisce un territorio limitato, anche se è accompagnato da “tutta”.
È il caso, tra i tanti, di 2 Re 17,5 dove si legge che “il re di Assiria invase tutta la terra” mentre in realtà si trattava della regione al centro-nord della Palestina, cioè di quello che è conosciuto come “Regno di Israele”. Se la superficie della Palestina equivale più o meno a quella del Lazio possiamo capire che si tratta comunque di un territorio molto ristretto.
Solo un altro esempio. In 1 Samuele 4,5 dove si descrive la guerra di Israele contro i Filistei, si legge che quando l’arca dell’alleanza giunse nell’accampamento “gli israeliti elevarono un urlo così forte che ne tremò la terra”. L’enfasi della descrizione è ben evidente anche se ci limitiamo ad un territorio ristretto sul quale Filistei ed Israeliti avevano posto i loro accampamenti.
Concludo con una domanda. Il racconto di Genesi capitoli 7-8 afferma ripetutamente che “le acque del diluvio furono sopra la terra” e il fatto è conosciuto come “diluvio universale”. Non c’è dubbio che l’autore del racconto e i suoi lettori lo intendessero proprio in questo senso. Penso però che sia lecito domandarsi se anche in questo caso non si debba intendere il termine “ ’erets” nel senso di regione, con riferimento alla Mesopotamia, “regione” dove il racconto è nato.
Mi rendo conto che in questo modo rottamiamo un universo di fantasticherie in cui siamo cresciuti e che continuano a condizionarci. Ma sinceramente preferisco mandare al macero le ricostruzioni dei pittori, dei registi hollywoodiani, dei poeti anche se fossero mistici, per salvare in una nuova “arca” dal diluvio che la minaccia, la cosa che ci è più cara: la Bibbia e il suo significato autentico.

mercoledì 24 settembre 2014

ESISTE DIO?

    
   Nei giorni passati i giornali hanno pubblicato una notizia che forse ha lasciato perplesso qualche lettore. L’Arcivescovo di Westminster Justin Welby avrebbe dichiarato che a volte dubita dell’esistenza di Dio. Chi ha diffuso la notizia pensava certamente di fare uno scoop. 
Se il capo della Chiesa Anglicana nutre dubbi di questo tipo non c’è da meravigliarsi se i fedeli, già poco propensi a credere, abbandonano la fede per seguire idee più consone alla mentalità moderna, libera da pregiudizi ereditati da un passato bigotto e credulone.
      Leggendo tutta la notizia, si veniva a sapere che i dubbi erano formulati come una domanda retorica che l’illustre Arcivescovo si poneva di fronte a situazioni drammatiche, sentite da un credente come una sfida alla propria fede. In pratica erano le stesse domande che ognuno di noi si fa quando capita qualche disastro naturale o qualche strage dovuta alla malvagità umana. La stessa domanda che è nata nella coscienza di molti di fronte alla Shoa o quando ai giorni nostri assistiamo al massacro di intere popolazioni o allo sgozzamento spettacolarizzato di vittime inermi.
La domanda è sempre la stessa, di una semplicità disarmante: “Dov’è Dio? Perché non interviene ad impedire questi orrendi crimini? Perché permette i terremoti o gli tsunami?”.
Una domanda che ricorre sovente nelle pagine bibliche sulla bocca di tanti personaggi che non riescono a capacitarsi dei mali che li colpiscono come individui e come popolo. È il grido di protesta di Giobbe, di Geremia e di tanti che si rivolgono a Dio anche con espressioni violente che ci lasciano sconcertati. Se nella Bibbia, considerata dai credenti il testo su cui fondano la propria fede, si trovano espressioni simili non c’è da meravigliarsi che il ripetersi delle sciagure porti con sé anche oggi gli stessi interrogativi angosciosi degli autori biblici.

TUTTO NASCE DA UN EQUIVOCO
L’equivoco è dovuto al fatto che si fa confusione con due coppie di verbi usati per descrivere il comportamento che ci aspettiamo da Dio. I verbi in questione sono:
proibire – impedire
proporre – imporre

Nella Bibbia Dio è presentato come un padre che insegna ai figli il modo di vivere felici. Mette in guardia dai pericoli derivanti da scelte sbagliate e suggerisce cosa fare per ottenere i risultati migliori. Secondo le norme scoperte dalla moderna pedagogia, Dio aiuta i figli a crescere con le proprie forze, a maturare le proprie capacità. Non vuole sostituirsi ad essi ma li affianca nella fatica, li sostiene, li incoraggia, li aiuta a capire rispettando la loro libertà e la loro dignità. È un rischio, ma Dio lo accetta. È una sfida, e Dio la raccoglie.
La riflessione biblica ha letto in questa prospettiva il rapporto tra Dio e Adam (cioè l’Umanità) a cui è indicato ciò che è bene e ciò che è male, lasciando però all’uomo la scelta. Se l’uomo sa come stanno le cose e compie le proprie scelte deve anche accettare le conseguenze che ne derivano. Dio ha fatto la propria parte, l’uomo deve fare altrettanto. Il rischio è duplice e carico di conseguenze, ma permette all’uomo di realizzare in pieno quella somiglianza con Dio che l’autore del primo capitolo del libro della Genesi presenta come l’intenzione del Creatore nel dare la vita all’Adam.
La Bibbia descrive la volontà di Dio servendosi prevalentemente dei due primi verbi: proibire e proporre. Solo in pochi casi ricorre all’immagine di uno che impedisce qualcosa o che costringe qualcuno ad agire contro voglia. Però, di fronte agli eventi drammatici della vita, gli uomini hanno preferito usare gli altri due: impedire e imporre, scaricando così su Dio le responsabilità di tutto ciò che andava storto nell’esistenza umana.
Da questo equivoco nascono le domande angoscianti “Perché Dio non impedisce il male? Perché non impone a tutti un comportamento corretto?”. A questo punto la risposta è chiara, anche se difficile da accettare a livello emotivo: “Dio non interviene perché non è compito suo!”. Lui ha fatto la sua parte e proprio perché ci ritiene capaci di assumerci le nostre responsabilità rispetta le nostre decisioni. Anche se non le condivide.
E non si tratta di un insegnamento obsoleto dell’Antico Testamento superato da quello del vangelo. È l’atteggiamento tenuto dal padre nella tanto celebrata parabola del “figlio prodigo” che oggi va di moda indicare con il titolo di “padre misericordioso”. Un padre, però, che dà al figlio ciò che gli chiede anche se sa benissimo l’uso che ne farà. Ma non lo impedisce, anzi neppure lo avverte. Il figlio deve sapere come comportarsi.
Noi sappiamo come andrà a finire. Il fallimento della brutta avventura porterà ad una soluzione positiva. Ma quanto è costata, sia al figlio che al padre.
Ci piaccia o meno, è questo l’insegnamento che ci viene dalla Bibbia e deve essere sulla stessa linea anche il nostro modo di giudicare gli eventi. Lasciamo finalmente da parte l’immagine di un Dio tappabuchi impegnato a mettere le toppe ai disastri che noi combiniamo. Dio vuole trattare con persone responsabili, coscienti e libere. Non tratta con dei robot.  È sempre pronto ad accogliere anche chi ha sbagliato ma è disposto a riconoscere i propri errori.



sabato 13 settembre 2014

ANCORA SU BIBBIA E VIOLENZA


Non ricordo quante volte ho scritto e parlato su questo tema. Evidentemente non tutti hanno letto o mi hanno sentito, perché continuo a leggere e sentire affermazioni del tipo “Anche la Bibbia è violenta!” quando si accenna alle istigazioni alla violenza presenti nel Corano. Come se, anche ammesso che la Bibbia esiga da noi, oggi, dei comportamenti aggressivi e dei massacri di innocenti, sia questo un motivo sufficiente per giustificare quanto avviene non molto lontano da noi.


Ma in realtà la Bibbia non inculca la violenza come un precetto divino, anzi condanna in modo totale ogni genere di sopraffazione anche se non giunge alla soppressione fisica del nemico. Addirittura la Bibbia indica l’amore come l’ideale che deve ispirare i rapporti con tutte le persone.

Certamente le pagine che noi consideriamo ispirate (non dettate!) da Dio contengono racconti di una violenza inaudita che fanno rabbrividire. Certamente le stragi dei nemici sono presentate come esecuzione di un ordine divino. Certamente quando gli Israeliti risparmiano i nemici sono puniti per una disobbedienza considerata una ribellione molto grave ai voleri della divinità.

Tutto vero. Non ci vuole molto a comporre un’abbondante antologia di testi, soprattutto dell’Antico Testamento, che presentano queste caratteristiche. Però sono racconti che troviamo quasi in fotocopia negli scritti dei popoli in mezzo ai quali vivevano gli Ebrei, che condividevano convinzioni religiose, abitudini e comportamenti comuni alle civiltà con cui erano in contatto.

Tra queste convinzioni spiccava quella di attribuire al dio nazionale la responsabilità di difendere il suo popolo anche con l’eliminazione fisica dei nemici. E poiché ogni popolo aveva un dio proprio, la guerra tra popoli era considerata guerra tra dèi. Forse qualcuno sarà sorpreso di trovare questa mentalità anche nelle pagine bibliche. Però è un dato di fatto che richiede di essere capito e non semplicemente ignorato perché ritenuto scomodo.

VENIAMO A NOI

Questa lunga premessa per giustificare la mia sorpresa quando in una recente trasmissione di Rai 2 ho sentito un rappresentante di una certa intellighenzia culturale che va per la maggiore, citare il v. 9 del Salmo 137, quello famoso che riporta la preghiera di alcuni Israeliti esuli a Babilonia, per dimostrare che la Bibbia è violenta.

Non cercate quel versetto nella raccolta dei Salmi per la preghiera dei sacerdoti, dei religiosi e anche dei laici impegnati. Non lo troverete. È stato tralasciato (direi: censurato) perché è stato letto dai liturgisti con la stessa mentalità del guru intervenuto a Rai 2, cioè come espressione di una volontà divina che incita alla violenza più spregevole, contro bambini innocenti. E questo dava fastidio alla nostra sensibilità raffinata.

È il segno preoccupante di un certo modo di leggere la Bibbia con i paraocchi di una cultura diversa dalla propria senza avere il coraggio di affrontare un testo per quello che è e per quello che comunica. Nel caso specifico, e in altri casi analoghi, lo si è fatto per “difendere la Parola di Dio”. In realtà si ricorreva ad un sotterfugio maldestro che finiva per diventare un ostacolo in più per capire e accettare il messaggio di Dio rivolto a noi.

Basta leggere un’altra pagina della Bibbia, il capitolo 29 del libro di Geremia, dove il profeta riferisce agli stessi Israeliti esiliati a Babilonia, un’esortazione presentata come esplicita volontà del Dio di Israele “Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (v. 7). Il paese in questione è proprio Babilonia.

Non facciamo difficoltà a leggere questa espressione come parola di Dio. Ma anche il v. 9 del Salmo 137 lo è, per la nostra fede! Come si può spiegare?

La risposta in un prossimo post. Per ora mi basta sottolineare l’attualità scottante di questa “Parola” se avessimo il coraggio di annunciarla nella sua interezza e ragionevolezza agli stranieri che, oltre tutto, non abbiamo deportato come prigionieri nei nostri paesi.


Senza volerlo, mi sono riagganciato al post precedente. A dimostrazione di come i problemi si rincorrono ma anche di come sono legati da un unico filo conduttore. Basta trovare il bandolo della matassa e tutto può diventare comprensibile e ragionevole.

martedì 9 settembre 2014

COERENTI AL VANGELO


Il brano del vangelo di Matteo (18,15-20) che abbiamo letto durante la celebrazione della messa domenica scorsa 7 settembre, proponeva alla nostra riflessione soprattutto un tema che è sempre stato attuale ma che oggi assume dei contorni inquietanti. Potremmo riassumerlo in due parole: responsabilità e solidarietà.
Un altro tema evidente è l’invito al perdono delle offese ricevute. Lo ha inteso in questo senso Pietro che, nel seguito del racconto di Matteo, pone a Gesù la celebre domanda “Quante volte dovrò perdonare? Fino a sette volte?”.


Ma vorrei fermarmi sull’aspetto che ho evidenziato prima, anche perché è messo in primo piano dalla scelta della liturgia che propone il testo di Ezechiele dove il profeta è presentato come la sentinella, responsabile della sorte dei suoi concittadini. Notiamo subito che la responsabilità della sentinella si limita al dovere di dare l’allarme per segnalare un pericolo, non riguarda il fatto che il segnale sia accolto o meno dalle persone che doveva allertare.
Il discorso di Gesù è rivolto ai suoi discepoli e muove dal presupposto che qualcuno abbia commesso una colpa contro di loro. Notiamo che il “qualcuno” non è considerato un estraneo o un nemico ma è definito come “fratello”. Anche in questo caso (come si è visto nell’episodio della donna cananea) abbiamo un cammino in crescendo a tappe successive. Si parte dalla ricerca del dialogo personale (v. 15), fallito il quale si deve chiedere l’aiuto di qualche amico (v. 16). Se anche questo tentativo non ottiene risultati positivi si potrà procedere ad un processo pubblico (v. 17). Di fronte all’ostinazione del fratello nel rifiuto di riconoscere i propri torti non rimane altra soluzione che lasciarlo ad affrontare le conseguenze delle sue scelte sbagliate (v. 17).
La conclusione è sconvolgente. Lo è almeno per una mentalità che sta prendendo piede nella società attuale. Oggi si vorrebbe per ogni vicenda drammatica una assoluzione generale di tutti i (cosiddetti) colpevoli, del tipo “Liberi tutti!” del famoso gioco che facevamo da bambini.
Ma la vita non è un gioco. Gesù ci invita a prenderla sul serio, ci apre gli occhi sulle nostre responsabilità. Se prendiamo delle decisioni dobbiamo anche avere il coraggio di portarne le conseguenze senza accusare sempre e soltanto gli altri.
Gesù però chiede anche ai discepoli di non “abbozzare” (diremmo noi) di fronte ai torti ricevuti. L’amore verso il fratello che ci ha offesi esige che si tenti ogni strada per convincerlo del suo sbaglio. Diversamente si diventerebbe conniventi e corresponsabili dei soprusi e delle violenze collaborando a diffondere il male anziché cercare di estirparlo. Non si sarebbe “costruttori di pace” ma strumenti di guerra.

E VENIAMO AI GIORNI NOSTRI

Mi auguro che sia solo una mia impressione, ma oggi si riflette poco su questo aspetto dell’insegnamento di Gesù. Forse non ci si pensa, o si ha paura di andare contro corrente, o si teme di essere accusati di integralismo.
Sono pensieri che mi sono venuti in mente questa domenica mattina al termine della celebrazione della messa, quando ho letto su un quotidiano nazionale la notizia (ripresa poi da altri quotidiani) delle perplessità che ha suscitato in qualche ambiente benpensante lo scritto di mons. Tommaso Ghirelli vescovo di Imola. Il quale, al di là del tono che si è voluto dare alle sue parole, non chiede ai fratelli islamici niente altro che di dichiarare pubblicamente la loro volontà di dissociarsi in massa dalle violenze disumane perpetrate da alcuni loro correligionari.
Si ripete continuamente che la maggioranza degli islamici sono contrari alla violenza, e anch’io sono convinto che lo sono. Ebbene, il vescovo ha offerto loro l’occasione di dimostrare questa loro lodevole volontà di pace con qualche gesto significativo che sia comprensibile anche alla nostra sensibilità. Ma che sia anche un impegno leale che si assumono di fronte a tutto il mondo. Insomma, che i moderati escano allo scoperto e formino un’opinione pubblica significativa nei loro ambienti.
Tutto qui. Non vedo che cosa ci sia di riprovevole a chiedere di manifestare quello che si dice di volere. Anche per evitare ogni equivoco, ogni appiglio per insinuare dubbi e sospetti. La chiarezza nei rapporti non solo tra persone singole ma anche tra gruppi di qualsiasi tipo è fondamentale per poter attuare una convivenza serena e produttiva per tutti.
Se manca questa trasparenza rimane sempre il sospetto che le parole nascondano, per motivi inconfessabili, simpatie e collusioni con chi commette atrocità che la nostra società ha condannato apertamente. Anche se poi tra di noi c’è sempre qualcuno che trasgredisce, ma che comunque cerchiamo di isolare, come si fa proprio in questi giorni con chi può essere un diffusore di Ebola.
La parola “vescovo” deriva dal greco “episcopos”, cioè “colui che guarda dall’alto”, che è come dire “sentinella” di un gruppo di persone che si affidano alla sua vigilanza. Se la sentinella di Imola ha dato un allarme penso che sia ragionevole svegliarsi per essere pronti ad ogni eventualità, sempre con la speranza e il desiderio che non ci sia bisogno di intervenire contro gli assalitori.
  E non tiriamo fuori il solito spauracchio delle crociate. Non credo proprio che sia il clima che si respira nelle nostre sacrestie. Chi lo pensa, evidentemente non le frequenta molto e forse ha ancora in mente gli anni quaranta del secolo scorso quando si cantava ”un esercito ha l’altar!”.
Spero sia solo una mia impressione, ma oggi sembra che si debba parlare piuttosto, con una certa giustificata preoccupazione, di “mezzelunate”. Mi si passi il neologismo, che certamente richiamerà alla mente di qualche fratello un certo Pierre l’Ermite di cui però non condivido assolutamente né ideali né metodi.
Il rifiuto e la condanna della violenza non ci portano a condannare il fratello violento, ma a fare tutto il possibile perché cambi il suo comportamento e cessi la violenza. Questo ci chiede il vangelo, non di far finta di niente. Se non ci impegniamo a trasformare in meglio questo nostro mondo non possiamo dirci cristiani. Anche se ci siamo sentiti ripetere per secoli che un buon cristiano deve disinteressarsi del mondo e pensare solo al paradiso.


mercoledì 27 agosto 2014

MA GESU’ ERA RAZZISTA?

La domanda è inevitabile se leggiamo il racconto di Matteo al capitolo 15 dal versetto 21 al 27. E la risposta è altrettanto evidente: Sì, si comporta come un vero razzista. Però il racconto termina al v. 28. Perciò la risposta deve tener conto di tutto il brano e non solo di una parte. Si tratta di un testo esemplare per la composizione letteraria e che deve essere analizzato attentamente per scoprirne il vero significato senza fermarsi a considerazioni superficiali e parziali….

Lo schema del racconto


Bisogna subito notare lo schema narrativo. Il v. 21 precisa il luogo dove è collocato l’avvenimento: siamo ai confini del territorio abitato da Ebrei e quindi ci troviamo a contatto con popolazioni “straniere”. È un elemento fondamentale per capire il racconto vero e proprio che è scandito in quattro momenti, ognuno dei quali è articolato in forma di domanda e risposta.


- Presentazione della donna straniera (v. 22) e prima richiesta di intervento. Gesù la ignora completamente: “non le rivolse neppure una parola” (v. 23).


- Intervento dei discepoli infastiditi dalle grida della donna interpretate come manifestazione di arroganza (v. 23). Gesù risponde ai discepoli con una motivazione teologica: la sua missione riguarda soltanto il popolo di Israele (v. 24).


- La donna blocca Gesù gettandosi ai suoi piedi: “Signore, aiutami!” (v. 25). Anche in questo caso Gesù non risponde alla donna ma si rivolge ai discepoli continuando a spiegare il perché del suo atteggiamento. La sua posizione è chiara e raggiunge la sua massima espressione quando si trasforma in disprezzo verso la straniera, espresso con un insulto crudele (v. 26).


- La donna non reagisce come avrebbero fatto altri, protestando o imprecando contro chi l’aveva offesa così pesantemente (v. 27). Accetta la discriminazione fatta da Gesù, e la giustifica con una dichiarazione inaspettata che sembra cogliere di sorpresa il maestro. Ed ecco che la tensione creata dal racconto si scioglie nelle parole di Gesù che dall’insulto passa immediatamente alla lode per la fede di quella straniera (v. 28).


Due percorsi psicologici


Si deve ancora notare come l’autore delinea il percorso psicologico compiuto dai due protagonisti: Gesù parte dall’indifferenza, poi fornisce le motivazioni del suo atteggiamento, lo porta alle estreme conseguenze giungendo al disprezzo. È un crescendo che possiamo definire negativo, ma che è funzionale nella dinamica del racconto, proprio perché sfocia nella conclusione che capovolge il giudizio sullo straniero.

Dal disprezzo si passa all’ammirazione e alla lode portando il potenziale nemico ad esempio per tutti. Ma in parallelo abbiamo anche il percorso della donna che in qualche modo si svolge in senso inverso a quello di Gesù. La sua prima richiesta di aiuto è formulata con un linguaggio che potremmo definire “burocratico”. Espone una situazione drammatica ma in modo impersonale.

Si ha l’impressione che consideri l’intervento richiesto come qualcosa di dovuto. Si rivolge al “figlio di Davide” perché tutti lo chiamano così. Dimostra certamente di avere fiducia in lui, ma in quanto rivestito di autorità e quindi in possesso di qualità straordinarie. La seconda richiesta è accompagnata da un gesto significativo. Prima gridava da lontano, adesso si avvicina, si getta ai piedi di Gesù impedendogli di camminare e dice una sola parola: ”Aiutami!”.

Data la vicinanza con il maestro, possiamo pensare che non abbia gridato con la voce. Il gesto stesso era un grido disperato. Non rivendica un diritto, riconosce la propria indigenza e si rivolge a chi può esaudire la sua richiesta. Semplicemente. È un passo importante che prelude all’ultima tappa di un cammino, breve nel tempo ma lungo per tutta la storia dell’umanità: il superamento delle barriere che contrappongono i popoli tra di loro.

L’espressione di disprezzo usata da Gesù, invece di provocare una reazione risentita viene accolta come la costatazione di un dato di fatto. La donna riconosce e accetta la sua inferiorità sottolineata così brutalmente dal riferimento ai cani, perché i vantaggi che spera di avere con la guarigione della figlia sono talmente grandi da non far sentire l’offesa dell’orgoglio ferito. Non avanza più pretese, non ha diritti da rivendicare, non ha posizioni di prestigio da difendere ad ogni costo. L’arroganza iniziale si trasforma in supplica senza pretese. La sua debolezza è disarmante e diventa la sua forza vincente. Finalmente, è Gesù a crollare. O meglio, a trovarsi nella situazione giusta che gli permette di manifestare le sue vere intenzioni.

Che non sono quelle descritte negli atteggiamenti precedenti ma quelle che emergono dalla considerazione finale. A questo punto la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio diventa evidente. Il maestro ha indossato i panni del razzista usando la sua terminologia e ricalcando i suoi comportamenti per dimostrare l’assurdità di una ideologia perversa, anche se mascherata da elucubrazioni teologiche addomesticate o da giustificazioni pseudo culturali di comodo.


Non ci sono “i buoni” e “i cattivi”


Ma nel percorso della donna Matteo fa capire anche come deve essere l’atteggiamento di chi si sente discriminato, se vuole uscire dalla situazione di disagio in cui si trova. L’orgoglio non è una virtù, nonostante si sia sempre proclamato il suo valore sociale e la sua importanza per l’affermazione della propria dignità. Se l’orgoglio è condannato quando spinge il più forte a calpestare i diritti del debole, deve essere considerato ugualmente, se non di più, negativo, quando porta il debole a contrapporsi all’oppressore in una sfida persa in partenza.

Con l’unico risultato di continuare all’infinito una lotta assurda nella quale tutti sono perdenti. Notiamo ancora che alla fine del racconto si stabilisce finalmente un dialogo tra Gesù e la donna straniera che fino a quel momento era stata ignorata, ma che a sua volta aveva cercato solo di ottenere qualcosa di concreto. Nessuno dei protagonisti sembrava interessato a cercare di costruire con l’altro un rapporto personale, che invece si rivela decisivo per la soluzione positiva.

Nel racconto non ci sono buoni e cattivi definiti in base alla loro appartenenza sociale o alla loro origine. Ciò contrasta con l’opinione, che si vorrebbe far passare per comune, che gli stranieri siano tutti buoni in forza della loro situazione, e quelli che dovrebbero accoglierli siano tutti cattivi perché vivono nella terra in cui sono nati. E non dimentichiamo che anche gli altri popoli condividevano le stesse idee nei confronti non solo degli Ebrei ma di tutte le popolazioni di origine diversa dalla propria.

Non sarà certamente il buonismo dilagante oggi a risolvere il problema con sofismi anti storici. I racconti evangelici riferiscono altri episodi simili a quello che stiamo studiando. Pensiamo alla donna che tocca il mantello di Gesù o al centurione romano che chiede la guarigione del servo o al padre che intercede per la figlia. Ma in tutta la Bibbia ebraica si ripete come un ritornello l’affermazione che “Dio resiste ai superbi” e accoglie benevolmente chi si rivolge a lui senza alcuna pretesa. È il tema sviluppato nella preghiera che Luca mette sulla bocca di Maria e che è conosciuta con i
l nome di “Magnificat”.

lunedì 4 agosto 2014

IL VANGELO DIMEZZATO

Il brano di vangelo che abbiamo letto nella liturgia di domenica 27 luglio proponeva tre parabole che formano una unità letteraria molto interessante (Matteo 13,44-52). Purtroppo anche in questo caso la lettura che ne è stata data nei secoli passati e che è ancora radicata nella mentalità e nella prassi di molti cristiani non rispecchia il significato del testo di Matteo...

Le conseguenze di un’interpretazione riduttiva dell’insegnamento evangelico (come si vedrà) si possono verificare nell’immagine che molti hanno della fede e della vita cristiana. Non possiamo negare che molti atteggiamenti dei cristiani danno l’impressione di gente insoddisfatta della vita e che non trova nella propria fede motivi sufficienti per un impegno a migliorare la società. Certamente ci sono i santi del passato che si sono distinti per le loro attività caritative, ci sono tanti contemporanei impegnati nel sociale.

Ma la sottolineatura che si tende ad evidenziare, e che è diventata prevalente nella mentalità comune, porta in primo piano le rinunce ai beni materiali, alle gioie della vita, la scelta volontaria delle sofferenze come se non bastasse la rassegnazione ad accettare quelle che ci vengono addosso anche senza che le cerchiamo. In poche parole, noi cristiani siamo conosciuti come gente che rinuncia ai valori della vita presente nella speranza di ottenere un premio in una vita futura che si fa sempre più evanescente nella coscienza comune.

Sono sicuro che molti reagiranno indignati a questa analisi e diranno che la nostra fede non è così. Ma non basta protestare per modificare una convinzione diffusa e fondata su tanti comportamenti evidenti a tutti. Sono convinto che la lettura superficiale di queste tre parabole, insieme ad altri passi dello stesso tipo, sia stata la causa della deformazione del messaggio evangelico nel senso negativo che abbiamo rilevato.

Abbiamo messo in primo piano la frase: “vende tutto” e l’abbiamo isolata dal contesto. In questo modo Gesù ci chiederebbe di ridurci al lastrico come quei due ingenui che ci presenta come modello, o come i pescatori della terza parabola che faticano tutta la notte per poi buttar via parte di quanto hanno pescato. Ma è proprio questo che ci chiede il nostro Maestro? È proprio questo quanto è scritto nel testo di Matteo? Solo l’analisi letteraria del racconto ci aiuta a capire che cosa ha voluto comunicarci Gesù per dirci che cosa fare per essere felici.

E allora, pazientemente, cerchiamo di vedere come è costruita questa unità letteraria. Per prima cosa è evidente che il tema centrale è “il regno dei cieli”. L’uomo lo incontra in tre modi diversi. Nella prima parabola l’incontro avviene in modo casuale, nella seconda è il risultato di una lunga ricerca, nella terza invece fa parte della vita dei pescatori, è il loro mestiere. Nei primi due casi, l’incontro con il “tesoro” lascia pensare che abbia cambiato in meglio la vita dei due fortunati.

La terza situazione, quella dei pescatori, fa pensare ad un impegno di routine senza trasformazioni significative delle abitudini. Soltanto nel primo caso si sottolinea che il fortunato è “pieno di gioia”, comprensibile per la sorpresa dovuta al ritrovamento inaspettato. Il mercante invece considera la scoperta della perla preziosa come frutto della sua abilità e del fiuto per gli affari. Manca la sorpresa ma rimane la soddisfazione per l’investimento realizzato.

Anche questo fa parte del mestiere e non c’è bisogno di evidenziarlo. Il caso dei pescatori introduce un elemento nuovo: il “tesoro” quotidiano, cioè la pesca abbondante indicata dalla rete “piena”, esige un’ulteriore fatica per separare il vero tesoro (i pesci buoni) da ciò che è inutile o addirittura dannoso (i pesci cattivi). Quest’ultimo particolare porta l’attenzione sulla composizione del regno dei cieli.

Dalla visione idealizzata delle prime due parabole alla descrizione di una realtà complessa che non perde però il suo valore (è condizione di vita per i pescatori) nonostante la presenza di elementi negativi. Di fronte al regno dei cieli presentato come un tesoro, i primi due fortunati hanno un momento di riflessione in cui valutano quanto hanno scoperto e fanno i loro calcoli studiando il modo di venirne in possesso.

Quando sono convinti di fare un vero affare non hanno esitazioni e vendono ogni cosa sicuri di realizzare un investimento che darà una svolta positiva alla loro vita. In un primo momento si trovano senza soldi e anche il tesoro non è che si trasformi subito in moneta corrente. A prima vista possono sembrare dei poveracci, dei falliti, degli illusi, ma la certezza di possedere qualcosa di grande impedisce loro di sentire la rinuncia come un peso.

Per i pescatori, la condizione di vita non è presentata come frutto di una scelta infelice, ma è affrontata serenamente, con naturalezza, nonostante i limiti legati alla natura del mestiere. È una situazione diversa dalle prime due ma basata sullo stesso principio condiviso: la convinzione di aver finalmente realizzato il sogno di una vita. Di fronte a queste considerazioni è evidente che vedere nelle tre parabole, se non esclusivamente, almeno come prevalente l’invito alla rinuncia è assolutamente riduttivo dell’insegnamento che Gesù ha voluto dare.

Al limite, è tradire l’annuncio del vangelo. Se manca l’entusiasmo o almeno la consapevolezza razionale dei valori proposti da Gesù, saremo sempre dei perdenti, frustrati nel rimpianto delle cipolle e dell’aglio d’Egitto, come gli ebrei nel deserto. Ma con questo atteggiamento non riusciremo mai a convincere nessuno che essere cristiani non vuol dire “essere cretini”, come sosteneva tempo fa un matematico che imperversava sui giornali e alla TV. Senza arrivare però a scimmiottare altri, promovendo manifestazioni di “christian pride”.


lunedì 21 luglio 2014

«FERMATI, O SOLE!» (2)

«FERMATI, O SOLE!» (2) Per prima cosa si deve individuare il luogo dove è ambientato il racconto. I geografi collocano Gabaon sulle montagne a nord di Gerusalemme, ad un’altitudine di circa 700 metri sul livello del mare. L’accampamento degli ebrei è situato a Galgala che si trova nella valle del Giordano a circa 300 metri sotto il livello del mare...
Tra le due località vi sono dunque circa 1000 metri di dislivello che gli uomini di Giosuè hanno superato con una marcia notturna (Giosuè 10,9) che deve essere stata piuttosto un’arrampicata faticosa non essendoci di sicuro strade agevoli. Il testo dice che Giosuè piombò sulle truppe che assediavano Gabaon gettando lo scompiglio nell’accampamento, sorpreso ancora nel sonno. Naturalmente il testo attribuisce lo scompiglio all’intervento del Signore e non si sofferma sui particolari facilmente immaginabili. Anche in questo caso la strategia adottata è quella della sorpresa. Era un dogma accettato da tutti, che di notte non si combatte, mentre invece… 
Destati bruscamente dal teru’a lanciato dagli uomini di Giosuè (non c’è nel testo, ma era normale che ci fosse), senza capire ciò che sta succedendo, completamente disarmati, senza vestiti e ancora intontiti dal risveglio inconsueto i soldati cercano solo di mettersi in salvo da quel nemico invisibile che lo spavento e le tenebre ingrandiscono a dismisura. Abbandonano corazze, scudi e armi in un fuggi fuggi generale che segna la sconfitta degli assedianti e la vittoria di Giosuè. Infatti è quello il momento decisivo, “quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti” (10,12). Il racconto prosegue descrivendo quanto avvenne durante la fuga verso la pianura che porta al mare, ad occidente di Gabaon. Sui fuggitivi assolutamente indifesi, si scatenò una furiosa tempesta di grandine che li seguiva nella discesa senza possibilità di scampo. Infatti gli Israeliti li inseguivano uccidendo con le spade tutti quelli che si fermavano: un’autentica strage favorita da un evento atmosferico che noi avremmo definito “provvidenziale” secondo la nostra terminologia e che secondo la mentalità e l’uso degli antichi viene attribuito in modo esplicito all’intervento diretto di Dio: “Il Signore lanciò dal cielo su di essi grosse pietre” (Giosuè 10,11).

La preghiera di Giosuè 
L’autore del racconto collega questo aiuto insperato all’invocazione di Giosuè che chiede al sole di nascondersi dietro le nubi per rendere possibile agli Israeliti, già sfiniti per la scalata notturna, di completare la vittoria sui nemici. Dobbiamo notare che la preghiera è ambientata “quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti” e cioè al mattino quando Giosuè è già all’inseguimento nella discesa verso il mare (ad occidente!) e quindi si trova con Gabaon alle spalle (e cioè ad oriente!). Infatti chiede al sole di fermarsi “in Gabaon” indicando così il momento in cui il sole stava sorgendo con le conseguenze che abbiamo illustrato. Rimane ancora da capire perché l’invocazione di Giosuè si trovi alla fine del racconto che si conclude con il v. 15. Questa collocazione è stata determinante nell’interpretazione comune di un prolungamento del giorno. Ma anche in questo caso il testo afferma un’altra cosa che diventa chiara soltanto se si tiene conto della struttura letteraria del racconto. 

La struttura letteraria del racconto
Con un po’ di pazienza, ritorniamo all’inizio del racconto, perché dobbiamo renderci familiare il modo di raccontare del nostro autore. Il v. 7 dice che “Giosuè partì da Galgala” e nel v. 15 leggiamo che “Giosuè ritornò all’accampamento di Galgala”. È evidente l’intenzione di dirci che l’episodio che interessa è racchiuso tra questi due momenti: partenza e ritorno da vincitore. Nel v. 8 è riportata la promessa fatta dal Signore di “mettere in potere” di Giosuè i nemici. I versetti 9-10 presentano la realizzazione della promessa attribuita a Dio che agisce attraverso la sorpresa dell’attacco all’alba, l’inseguimento dei fuggitivi lungo la discesa verso il mare durante la quale si nomina la località di Azeka, fino alla conclusione della battaglia nella tappa definitiva di Makkeda. 
Il racconto è completo: gli israeliti potrebbero ritornare al loro accampamento di Galgala come detto al v. 15. E invece no, il nostro autore ritorna indietro per spiegarci che cosa è accaduto durante l’inseguimento e attribuisce la vittoria strepitosa e impensabile ad un ulteriore intervento di Dio che manda sui nemici una grandinata micidiale (v. 11). È la seconda sorpresa che, aggiunta alla prima (il risveglio improvviso “sotto attacco”) è stata determinante per la vittoria. Il narratore ci tiene ad informarci che la grandinata ha avuto una durata limitata, “fino ad Azeka” (ecco perché l’ha ricordata prima!), ma sufficiente per mettere i nemici in balìa degli uomini di Giosuè che hanno concluso la strage nei chilometri che li separavano da Makkeda dove si era conclusa la battaglia verso sera, come era normale che accadesse. È evidente che il versetto 11 non racconta ciò che è avvenuto dopo quanto narrato in quelli precedenti ma si inserisce in quelli per indicarci la modalità eccezionale dell’accaduto. È lo stesso fatto, presentato da un punto di vista diverso, non un qualcosa da aggiungere al racconto precedente. 
Il versetto 12 aggiunge ancora una spiegazione: quanto è accaduto è stato determinato dalla preghiera che Giosuè ha rivolto al Signore. L’attenzione del lettore è indirizzata non ai particolari della battaglia ma al fatto che “il Signore aveva ascoltato la voce di un uomo e combatteva per Israele” (v. 14). Il v. 13 dimostra che l’episodio era entrato nella leggenda epica popolare che se ne era impossessato trasformandolo nel testo di un canto che si trovava in una raccolta di cui è riportato anche il titolo. Come si vede, il racconto è inserito in un contesto narrativo più ampio che comprende la giustificazione dell’alleanza con i gabaoniti (9,1-10,5) e la conclusione che va ben oltre l’episodio centrale (10,16-43). Da notare che il ritorno a Galgala è riferito due volte (10,15 e 10,43). Inoltre, l’introduzione (9,1-10,5) è redatta in stile narrativo “libero”, mentre la conclusione segue uno schema ripetitivo piuttosto rigido. 
Ci siamo dilungati in un’analisi attenta alle caratteristiche letterarie del nostro testo tanto discusso ma partendo da punti di vista molto diversi. Mi auguro che a nessun archeologo venga in mente di negare la storicità del nostro racconto per il fatto che non ha trovato tracce della grandine! A meno che non voglia vederle nella vallata che scende da Gabaon verso il mare dove si rimane impressionati da una quantità incredibile di pietre di varie dimensioni disseminate sulla superficie dei campi. Potrebbero essere un elemento per suggerire un’origine eziologica del nostro racconto! Il racconto che forma l’introduzione meriterebbe una lettura attenta perché presenta un quadro delizioso per l’ingenua furbizia dei gabaoniti che fa da contrappunto a quella vantata dagli israeliti. Un tema affascinante presentato in una forma letteraria che, anche in questo caso, potrebbe fornire senza molte modifiche il copione di un film di avventure. 
Forse qualcuno si sarà meravigliato, (spero non si sia annoiato), perché siamo ritornati più volte sullo stesso testo studiandolo da diversi punti di vista. È stata una scelta voluta che va contro l’abitudine pessima che ci è inculcata dalla società in cui viviamo che ci spinge a voler vedere subito “come va a finire” con una lettura superficiale dei testi. È anche vero che molti testi contemporanei offrono poco materiale degno di approfondimento e non meritano altra attenzione se non quella riservata all’usa e getta. Ma la Bibbia è un’altra cosa. Purtroppo le riserviamo lo stesso trattamento che giustamente dedichiamo ad altre letture. Invece, anche indipendentemente dal fatto che i credenti la considerano parola di Dio, la Bibbia è una raccolta di testi che sono frutto di lunghe riflessioni sui grandi interrogativi dell’esistenza umana. Non si possono trattare come un articolo che parla di sport o di un concerto rock o che presenta il gossip sui personaggi dello spettacolo. La Bibbia stessa ci dice che deve essere “ruminata” (Salmo 1,1) cioè resa assimilabile in tutte le sue componenti, sfruttata in tutte le sue potenzialità espressive. Una lettura affrettata e superficiale ci lascerà sempre insoddisfatti e ci farà perdere la stima e l’amore per una raccolta di libri che giustamente sta in cima alla classifica di quelli che sono proclamati patrimoni dell’umanità. Mi riprometto di continuare a sviscerare altri testi biblici con lo stesso impegno che mi auguro verrà condiviso da qualcuno almeno dei lettori.
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giovedì 17 luglio 2014

«FERMATI, O SOLE!» (1)

«FERMATI, O SOLE!» (1) Forse è l’esempio più conosciuto, anche per le conseguenze drammatiche non ancora sopite, di come un testo biblico letto e interpretato a partire da pregiudizi consolidati possa portare a conclusioni aberranti. Il “caso Galileo” è troppo noto. Nei commenti che ne sono seguiti si è messo in luce il contrasto tra quanto “affermava la Bibbia” e quanto dimostrava la scienza...
Le discussioni avvenivano sullo stesso piano, come se la Bibbia facesse affermazioni scientifiche smentite dall’osservazione oggettiva dei fatti. Le tesi a giustificazione della Bibbia movevano sempre dal presupposto che il cosiddetto sistema Tolemaico era patrimonio comune a tutto il mondo antico e quindi condizionava il modo di rappresentare l’universo anche nella cultura ebraica. In pratica, si accettava l’ipotesi che la Bibbia potesse sbagliare nel descrivere il mondo fisico, ma si sosteneva la sua verità quando offriva insegnamenti morali. Non si pensava nemmeno che la Bibbia volesse dire altro da quello che avevano in mente i suoi lettori. In altre parole, non si cercava affatto di capire il linguaggio usato dagli autori per comunicare i loro messaggi. Oggi pensiamo che l’aspetto letterario sia il primo da tenere presente e solo partendo da quello si possa valutare il significato da dare al testo. Sottoponendo un testo ad un’analisi letteraria non è sufficiente conoscere il significato delle singole parole ma è necessario tenere conto del contesto immediato e remoto, cercare di scoprire la struttura narrativa soggiacente, confrontare con altre narrazioni simili, accettare le provocazioni del testo senza imporgli idee anacronistiche. Non è una ricerca semplice, ma è l’unica possibile per avvicinarsi all’intento dell’autore e comprenderne il messaggio. Nel caso del testo che stiamo analizzando è necessaria anche una conoscenza dell’orografia del territorio in cui è ambientato il racconto nonché della percezione dei fenomeni naturali in quel determinato ambiente. Non è poi da trascurare l’intento religioso attribuito al protagonista dell’evento e condiviso da chi lo racconta. Come si vede non dovrebbero entrare nella comprensione del racconto le conoscenze scientifiche del passato, a meno che non entrino direttamente nelle affermazioni attribuite ai personaggi e condivise da chi descrive quanto è avvenuto. Nell’episodio che stiamo studiando penso che non dobbiamo lasciarci condizionare dal sottofondo culturale ben noto riguardo alla costituzione del cosmo. Il sistema tolemaico sembra non aver influito sul racconto, anche se formava la base indiscussa di un’opinione comune. Questa precisazione è importante per non continuare ad affermare che l’unico senso possibile della preghiera fatta da Giosuè sia quello di chiedere l’arresto del movimento del sole. Forse è utile incominciare a “scavare” nei dizionari alla ricerca proprio del verbo incriminato che sintetizza tutto il racconto: “Fèrmati o sole! E il sole si fermò”. È difficile resistere alla suggestione di attribuire al verbo il senso che pare più ovvio e che sarebbe richiesto dalla convinzione degli antichi di un movimento del sole attorno alla terra. A partire da questo significato tutto il racconto è stato letto in modo coerente (ma sbagliato!) come un prolungamento del giorno per permettere agli ebrei di portare a compimento la strage dei nemici. Si sono scomodati gli astronomi, i geologi, i meteorologi e non so quanti altri scienziati per trovare una spiegazione scientifica che desse ragione al testo biblico o che lo smentisse. Si è parlato di blocco dell’asse terrestre (che contraccolpo!), di una pioggia di meteoriti che riflettevano i raggi del sole, si è fatto ricorso alle aurore boreali, si sono avanzate le ipotesi più strane perché non si è voluto leggere il testo che invece si presenta con una semplicità e linearità che rasenta addirittura il banale. E questo a chiare lettere, non in base a ricostruzioni ipotetiche e cervellotiche. Il verbo in questione, tradotto comunemente con “fèrmati”, in ebraico è damam. I vocabolari danno come significato fondamentale “tacere, fare silenzio” per arrivare al senso derivato di “smettere di fare qualcosa” che si sta facendo. Se l’azione che deve essere interrotta indica un movimento, il verbo può significare anche “fermarsi”, “rimanere immobile” ma questo non è il primo significato che viene in mente quando si trova il verbo damam. Ricordo l’invito che ci rivolgeva l’insegnante di ebraico quando entrava in classe mentre si chiacchierava, dicendoci “dommu!” “Fate silenzio!”. Conosciamo tutti la frase che ripetono i giornalisti della TV al termine dei loro servizi: “Mi fermo qui”. Nessuno di noi pensa che si trattengano negli studi televisivi fino al giorno dopo. Anche solo avanzare questa ipotesi sembra una banalità, tanto è ovvio il senso della frase. Dunque la frase pronunciata da Giosuè esprime semplicemente il desiderio che il sole “smetta di fare ciò che sta facendo”. Nemmeno ai più convinti sostenitori della teoria tolemaica doveva venire in mente che l’azione principale del sole fosse il movimento. Ma qui ci troviamo di fronte ad un’altra trappola culturale. Noi associamo spontaneamente l’azione del sole alla luce. Ma era questo il primo effetto prodotto dal sole come era percepito dagli abitanti delle montagne di Israele? Quando spunta il sole c’è già la luce da un bel po’ di tempo, ma la temperatura (lo afferma anche la nostra scienza) ha raggiunto il livello più basso. I primi raggi del sole provocano una sensazione di calore che aumenta fino a raggiungere il massimo a mezzogiorno, quando la temperatura diventa insopportabile. Il Salmo 19 unisce il movimento del sole agli effetti che produce sintetizzati nel calore a cui nessuno sfugge: “Egli sorge d un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore” (19,7). In quelle condizioni sarebbe stato impossibile combattere per gli uomini di Giosuè che avevano nelle gambe un’arrampicata notturna massacrante. Non era certamente quello il desiderio espresso nell’invocazione del condottiero, che non poteva chiedere per i suoi uomini uno straordinario di altre ventiquattro ore consecutive nella calura soffocante del giorno! Come si vede, è una questione di buon senso, che aveva chi ha scritto questo racconto ma che è mancato a intere generazioni che l’hanno letto, fino ad oggi. La frase deve riferirsi all’attività del sole come fonte di calore, cioè deve esprimere il desiderio che il sole “cessi di scaldare”, cosa che avviene regolarmente anche ai nostri giorni, quando il sole è coperto dalle nubi. In questo modo gli assalitori avrebbero potuto continuare a combattere senza essersi disidratati. Lavoro di fantasia? No, semplicemente leggo quanto è scritto nel testo che, poco prima, descrive una terribile grandinata dagli effetti devastanti per i fuggitivi inseguiti dagli ebrei. Anche al giorno d’oggi la grandine presuppone un cielo nuvoloso che corrisponde perfettamente alla situazione atmosferica auspicata da Giosuè. Però il racconto presenta una grandinata “intelligente”, mirata a colpire soltanto i nemici e lasciando incolumi gli ebrei. Chi si è trovato coinvolto in qualche grandinata sa benissimo che i danni causati dal fenomeno sono limitati ad una fascia più o meno larga entro la quale tutto può essere distrutto al passare della precipitazione. Già, perché la grandine si muove e chi corre nella sua stessa direzione se la trova sempre sulla testa, mentre chi gli sta dietro può anche non venirne nemmeno sfiorato. Si tratta allora di un banale temporale estivo? Dove finisce l’eccezionalità dell’avvenimento che certamente l’autore vuole evidenziare? È scritto anche questo nel testo. La cosa straordinaria, è scritto, consiste nel fatto che “il Signore ha ascoltato la preghiera di un uomo” combattendo per Israele. È questo che rende grande e memorabile quel giorno. I particolari descrittivi indicano solo gli strumenti di cui Dio si è servito per dare la vittoria al suo popolo. Il fatto era entrato nella leggenda epica che lo aveva ricordato in una canzone popolare contenuta in una raccolta di cui è riportato il titolo: “Il libro del giusto”. È vero che già la tradizione antica, testimoniata dal libro del Siracide (46,4), aveva interpretato l’eccezionalità dell’evento legandola allo scorrere del tempo cronologico e non al tempo meteorologico: “Al suo comando non si arrestò forse il sole e un giorno divenne lungo come due?”. Eppure nello stesso libro per descrivere il sole lo si considera soltanto come fonte di calore: “A mezzogiorno dissecca la terra, e di fronte al suo calore chi può resistere? Si soffia nella fornace per ottenere calore, il sole brucia i monti tre volte tanto, emettendo vampe di fuoco”. Evidentemente era già prevalso l’aspetto più spettacolare e insolito, che poteva anche essere suggerito dal testo, su quello che poteva sembrare piuttosto banale di un semplice temporale estivo. Purtroppo è stata questa l’interpretazione diventata comune nei secoli successivi con le conseguenze disastrose che conosciamo e di cui portiamo ancora le conseguenze nell’affermata incompatibilità tra Bibbia (o fede in generale) e scienza. Abbiamo cercato di risolvere i problemi di tipo lessicale. Rimangono ora da affrontare gli altri problemi di carattere orografico e narrativo, sempre con assoluto rispetto di quanto è scritto nel testo. Si possono verificare gli effetti devastanti di una grandinata "dei nostri giorni" che ha colpito alcuni bagnanti in Russia con lo stesso abbigliamento dei nemici inseguiti da Giosuè. In questo caso però nessuno aveva pregato... grandinata devastante

sabato 5 luglio 2014

RITROVATE LE MURA DI GERICO (2)

RITROVATE LE MURA DI GERICO (2) … e veniamo a Gerico. Se proviamo a leggere il racconto del libro di Giosuè tenendo conto delle osservazioni fatte, avremo la sorpresa di trovarci di fronte ad un racconto assolutamente verosimile, tanto da essere tentati di catalogarlo addirittura tra i racconti strettamente storici, cioè che riportano i fatti esattamente come si sono svolti. Precisiamo subito che nel libro di Giosuè il termine chomah ricorre quattro volte (in 2,15 due volte; 6,5.20)...
Nei primi due casi si tratta certamente delle mura della città, presentate nella loro funzione difensiva. Il problema si pone soltanto per le due ricorrenze di 6,5 e 20. Notiamo che fin dall’inizio del racconto il testo mette in primo piano la sorpresa degli abitanti di Gerico che non sanno spiegarsi la presenza di quegli uomini “che hanno attraversato il Giordano”. Il pensiero del lettore va alla sorpresa degli stessi ebrei che si sono trovati di fronte al fiume in una stagione avversa, quando tutta la valle era allagata e rendeva impossibile andare da una sponda all’altra. Come aveva potuto compiere un’impresa di quella portata la gente che sembrava sbucata dal nulla? Quale forza dovevano avere, quali capacità eccezionali dovevano possedere quelle tribù che avevano già sconfitto i nemici che si erano opposti alla loro marcia? Queste considerazioni formano lo schema del racconto delle due spie (Giosuè 2,1-3). È evidente la preoccupazione del re di Gerico che doveva condividere la convinzione e la paura espresse dalla prostituta (2,9-11). Il centro del racconto è costituito dal versetto 11: “(Quello che avete fatto agli altri re) lo si è saputo e il nostro cuore è venuto meno e nessuno ardisce di fiatare dinanzi a voi”. È questa la chiave interpretativa di tutto il racconto costruito attorno al tema della paura di fronte ad un comportamento contrario a tutte le regole che guidavano i rapporti tra popolazioni diverse. Lo straniero era considerato un nemico potenziale e il primo atteggiamento nei suoi confronti era il sospetto. Il timore di un’aggressione armata suggeriva misure rigide di controlli per prevenire azioni militari. Tutti i sistemi di sicurezza erano basati sulla capacità dei propri soldati di rispondere con le armi al possibile invasore che, a sua volta, affidava alle armi la propria forza. A partire da questa convinzione era normale che gli abitanti di Gerico si preparassero ad affrontare quegli stranieri secondo i parametri usuali, convinti che anche essi facessero la stessa cosa. Invece si presentava una situazione totalmente nuova, inspiegabile che trovava Gerico assolutamente impreparata. Gli stranieri aggressori si presentavano disarmati (almeno all’apparenza) e non dimostravano intenzioni bellicose. Però non davano nemmeno segni di voler stringere alleanze o di chiedere ospitalità, non inviavano delegazioni o ambasciatori. Il loro comportamento era incomprensibile. C’era da aspettarsi di tutto in un clima che doveva diventare sempre più teso e angoscioso. Facciamo lo sforzo di calarci nei panni di chi si sente assediato da nemici che incutono paura e che minacciano un attacco con un atteggiamento provocatorio, senza mai sferrare l’assalto decisivo. Devono essere stati giorni di tensione crescente per gli assediati i sei giorni in cui gli ebrei facevano il giro attorno alla città in perfetto silenzio accompagnati solo dallo squillo delle trombe. Doveva essere un rituale magico – pensavano gli assediati – per invocare l’intervento di quel dio che li aveva condotti davanti alla loro città. Che cosa stava per accadere? Il nostro narratore è riuscito a creare un clima di suspense degno dei più grandi maestri del genere. Siamo così condotti al momento decisivo. Noi siamo stati informati che il “D-day” è stato fissato per il “settimo giorno” (6,3-4. 15ss.) ma gli abitanti di Gerico non lo sanno e vivono momenti sempre più angosciosi. Nel giorno stabilito succede qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi, non solo da quelli tradizionali ma anche da quelli imposti dai nuovi arrivati. Infatti ripetono il giro attorno alla città per sette interminabili volte in un silenzio assoluto di fronte agli assediati sempre più sbalorditi. All’improvviso squillano le trombe, lo shofar suona insistente, il teru’a esplode con tutta la sua forza intimidatrice… e succede il finimondo. La città è in subbuglio, gli stessi soldati non sanno che fare, gli ordini dei comandanti sono confusi o non si sentono affatto soffocati dal frastuono che aumenta sempre di più alimentato dalle urla disperate degli abitanti terrorizzati. Gli assedianti hanno buon gioco, la città non ha più nessuna difesa, “sono crollate le mura” (6,20; cf 1Re 20,30), è completamente nelle loro mani, ne possono disporre a piacimento secondo il piano studiato da Giosuè e comunicato con largo anticipo con abbondanza di particolari. Il loro Dio, a cui attribuiscono il merito della vittoria strepitosa, ha pieno diritto a ricevere tutto il bottino derivante dal saccheggio della città, perché è lui il vero vincitore. Nel linguaggio di allora questo riconoscimento aveva un nome preciso: cherem che le nostre traduzioni ci hanno consegnato con un termine infelice che si è piantato nella fantasia di intere generazioni ed ha contaminato anche la nostra cultura: sterminio! Con buona pace dell’aspetto cultuale e religioso che sta alla base di quel gesto che a noi appare deprecabile e ripugnante ma che nella cultura generale del tempo antico (non solo tra gli Ebrei) rappresentava un doveroso ossequio al dio nazionale che aveva salvato il suo popolo. Perciò si meritava l’intero bottino fatto di cose materiali, poiché il popolo aveva già ricevuto la sua parte avendo avuto salva la vita. Mi aspetto un commento ironico di qualche lettore: “Ma questo è un romanzo!”. “È quanto è scritto nella Bibbia, nel libro di Giosuè” rispondo tranquillamente. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma è un racconto straordinario e assolutamente vero dal punto di vista psicologico, costruito con tutti gli ingredienti del più classico dei thriller, sembra pronto per essere trasformato in un film. Si tratta dunque di un fenomeno letterario e come tale deve essere valutato. Se lo leggo con gli occhiali di un archeologo sarò inevitabilmente deluso perché voglio cercare quello che l’autore del racconto non mi vuol dire e che perciò non troverò mai. Ma a questo punto devo chiedermi che cosa voleva dire chi ha scritto queste pagine. Voleva fare un racconto per vincere qualche premio letterario? Non ci pensava affatto, perché i suoi interessi erano unicamente di carattere religioso. In pratica voleva esortare i suoi lettori ad avere fiducia in Dio, a non scoraggiarsi di fronte a nemici potenti e forti. Senza escludere che nel salvare chi si fida di lui, Dio non si serva di quelle che noi chiamiamo doti naturali mentre gli antichi le consideravano una partecipazione della forza divina, un dono dello spirito. Tra queste doti gli Ebrei si riconoscevano depositari della capacità di inventare soluzioni nuove, di tentare quello che sembrava impossibile a tutti, di sorprendere l’avversario, di prenderlo in contropiede e così metterlo al tappeto. Nel cap. 8 troveremo un altro racconto che esalta le stesse doti strategiche grazie alle quali il piccolo e il debole riesce ad avere la meglio sul più forte. Come aveva fatto Davide con Golia, come aveva fatto Gedeone con i suoi trecento uomini… come avrebbero fatto molti anni dopo i caccia bombardieri israeliani a distruggere la contraerea e l’aviazione egiziana nella “guerra dei sei giorni” con un volo contrario a tutte le regole. Questa è la storia che conta, quando diventa davvero maestra di vita, quando insegna a capire gli avvenimenti senza incartapecorirsi in ricostruzioni cervellotiche quanto inverosimili. Ma questo tema è troppo appassionante. Riguarda tutta la Bibbia che nel suo insieme si presenta sempre con queste stesse caratteristiche: voleva insegnare a vivere felici e continua a mandare lo stesso messaggio anche a noi. Bisogna però saperlo leggere nel modo giusto. È questo che mi riprometto di fare nei post che seguiranno.

giovedì 26 giugno 2014

LE MURA DI GERICO - 1

RITROVATE LE MURA DI GERICO (1) Il metodo degli “scavi” in presa diretta. Il mio invito (nel post precedente) a “scavare nei dizionari” piuttosto che sotto la sabbia ha meravigliato qualche lettore, convinto che si conoscesse tutto su quello che riguarda il testo biblico. Ho voluto mettermi a “scavare” io stesso anche per far vedere in atto come si procede in questo tipo di ricerche...
E dallo “scavo” nei dizionari è venuto alla luce del materiale interessante che può gettare una luce sulle tanto discusse “mura di Gerico”. Non si tratta di novità assoluta, come già dicevo nel post precedente, ma di una conferma documentata dell’ipotesi che a crollare di fronte “a quelli che hanno attraversato il Giordano” (“’ebrei” deriva dal verbo “’abar” che significa “attraversare”) non siano state le pietre ma qualche altra cosa che costituiva la “difesa” della città. Quando si incomincia a “scavare” alla ricerca delle parole, prima di tutto si devono individuare tutti i testi dove si trova la parola o la frase che interessa. Quindi si devono leggere e studiare i singoli passi per confrontarli tra di loro e così ricavare dal contesto il significato da attribuire alla parola o alla frase. Si ottiene così una serie di significati che partendo da quello della radice della parola ne sviluppano le diverse accezioni. L’insieme di questi diversi significati forma così come una famiglia in cui si distinguono figli, fratelli, cugini e nipoti ma tutti uniti da uno stretto legame. È il metodo seguito da tutti i linguisti per comporre i dizionari o i vocabolari che elencano i vari significati tra cui scegliere quello più adatto al contesto che interessa. Nel nostro caso la parola da cercare nel testo ebraico è “chomah” che ricorre in tutta la Bibbia 133 volte in un totale di 123 versetti dove si presenta in 10 forme diverse (singolare, plurale, con suffissi vari, ecc.). A questo punto ho incominciato a leggere nel loro contesto tutti i 123 versetti che contengono la parola chomah cercando di capire a che cosa si riferiva. Nella maggior parte dei casi era usata per indicare senza alcun dubbio il muro che circondava certi agglomerati urbani a scopo di difesa e che venivano chiamati “città”, mentre quelli che ne erano privi venivano indicati con altri nomi. Il contesto era generalmente descrittivo di un muro con le caratteristiche particolari che lo distinguevano da altri tipi di muro, ad esempio quelli delle case o dei palazzi. L’idea che si ricava da questa ricerca è legata alla funzione del muro, cioè “difendere la città” da attacchi dei nemici o da ingressi di persone non gradite. In un certo numero di testi, quest’ultimo significato diventa prevalente. Chomah non è più visto come opera muraria ma assume il valore di “difesa”. Non interessano le pietre o le misure ma la funzione che queste avevano, cioè difendere da eventuali aggressori. È certamente questo il significato (già indicato in un post precedente) che assume il termine chomah nel racconto di 1 Samuele 25,16 dove si narra che gli uomini di Davide “sono stati una chomah – difesa – di notte e di giorno”. Nel testo ebraico non si trova la particella “come” (una difesa), che invece qualche versione moderna ha sentito il bisogno di introdurre per far capire al lettore che gli uomini in questione non erano un muro ma che svolgevano le stesse funzioni del muro di pietre, cioè “difendevano” i pastori. Un altro testo presenta le stesse caratteristiche ed è Nahum 3,8. Qui la “difesa” è rappresentata dall’acqua del Nilo che circonda l’isola sulla quale sorgeva la città di Tebe, protetta non da opere murarie ma dal grande fiume. Si tratta ancora di acqua con la stessa funzione, nel racconto drammatico di Esodo 14,22.29. Anche in questo caso l’acqua impedisce l’accerchiamento dei fuggitivi da parte degli inseguitori pur rimanendo nella sua posizione “orizzontale” senza dover assumere per un tempo indeterminato l’aspetto dell’onda di uno tsunami. Purtroppo una rappresentazione fantastica ha fatto leggere in questa descrizione molto più di quanto afferma il testo, se letto nella sua semplicità senza i pregiudizi accumulati nel corso dei secoli e che continuano a condizionare la nostra interpretazione. Non si tratta più di acqua ma di fuoco nel testo del profeta Zaccaria (2,9) che fa dire a Dio nei confronti di Gerusalemme: “Io stesso sarò per essa un muro di fuoco all’intorno” per assicurare la protezione divina alla città. Il senso metaforico dell’immagine è evidente e, almeno in questo caso, sembra che sia stato rispettato da tutti gli interpreti del testo. Nel libro di Geremia leggiamo che il profeta si sente inviato ad annunciare la parola di Dio, cosa che gli procurerà molti problemi e reazioni negative da parte del popolo a cui si rivolge. Ma il profeta è rassicurato da Dio (1,18) che gli promette di trasformarlo “in una città fortificata, in una torre di ferro, in mura (o “in un muro”) di bronzo”, espressione che ritorna anche in 15,20. Nessuno ha mai interpretato questa espressione in senso materiale ma, giustamente, è stato riconosciuto il senso metaforico che comprende sia l’idea della lotta come quella della vittoria assicurata. Sempre nel significato di sicurezza il termine “chomah” è usato nel libro dei Proverbi per indicare le ricchezze considerate da chi le possiede “come un muro elevato” (Proverbi 18,11). Chi non sa dominare i propri istinti, specialmente la collera, è esposto a qualsiasi genere di attacchi da parte degli altri, può essere aggredito da chiunque, è come “una città senza chomah” (Proverbi 25,28). Qui la mancanza di muro indica chiaramente qualcosa di diverso da una costruzione muraria e sottolinea in modo icastico la precarietà di una condizione di vita. Sulla stessa linea è il testo di Ezechiele 38,11 che descrive la vita di popolazioni tranquille e sicure come “gente che vive in luoghi senza muro”. Qui l’assenza di mura è vista in senso positivo ma si rimane sempre nell’ambito di un linguaggio metaforico. Infine nel Cantico (8,9-10) troviamo ancora una metafora che usa il termine chomah per descrivere il corpo della ragazza, considerato dai fratelli come un muro o una porta, mentre la ragazza stessa dice di essere un muro e i suoi seni come torri. Anche se non è subito evidente il significato da dare alla parola in questione è fuori dubbio che viene usata in senso metaforico. Dunque sono almeno sette casi in cui chomah viene usato in senso figurato per indicare la “difesa” di una città, di un popolo, di una persona, senso che è implicito in tutti gli altri casi. A questo punto penso che sia non solo lecito ma doveroso chiedersi se, nel caso in cui il racconto biblico presenti dei tratti inverosimili, miracolistici, sensazionali legati ad un “muro” non debba essere letto come una metafora e interpretato di conseguenza. Se poi, come abbiamo già visto, vi sono altri racconti che presentano lo stesso schema narrativo, a prescindere dal termine chomah, non è azzardato pensare che esistesse un “modo di raccontare” certi fatti del passato, comune ad una certa cultura giunta a noi attraverso la Bibbia. Gli studiosi hanno classificato questo schema narrativo tra i “generi letterari” con cui una determinata cultura esprime le proprie idee, i propri sentimenti, il proprio modo di vivere, la propria fede religiosa. (Continua nel post seguente)

mercoledì 11 giugno 2014

LEGGERE LA BIBBIA

LEGGETE LA BIBBIA, PER FAVORE! È passato poco più di un mese dalla pubblicazione su Repubblica dell’articolo che negava la storicità della Bibbia (29 aprile) e il giornale romano ritorna sul tema con un commento di Guido Ceronetti (29 maggio). Non so se i responsabili del quotidiano abbiano voluto fare un passo indietro nei confronti del primo articolo, consapevoli di aver pubblicato una bufala...
È certo però che Ceronetti demolisce le argomentazioni – se così le vogliamo chiamare – dell’archeologo israeliano, usando lo strumento giusto per valutare un testo letterario e per di più di contenuto dichiaratamente religioso, e cioè le parole (perciò: non le pietre!). Sia ben chiaro che Ceronetti non ha rinunciato alla sua posizione di non credente, ma proprio questo fatto rende il suo intervento più credibile in quanto non dettato da preoccupazioni confessionali. L’approccio alla Bibbia deve essere scientifico, cioè rispettoso delle caratteristiche con cui si presenta. La Bibbia è prima di tutto un testo letterario e deve essere studiato e valutato con gli stessi criteri e strumenti usati per qualsiasi altro scritto che presenti le stesse caratteristiche. Non si presenta come un trattato di scienze naturali (anche se parla di natura), non si presenta come un trattato di geografia (anche se descrive paesi e regioni, monti e fiumi). Queste due affermazioni sembra siano state accettate abbastanza comunemente dagli ambienti degli studiosi, anche se assistiamo ancora a rigurgiti di “concordismo” da parte di chi è rimasto ancorato a quanto gli è stato insegnato da bambino. Permane invece con ostinazione il pregiudizio che la Bibbia “pretende di essere” un insieme di libri che ricostruiscono fedelmente gli avvenimenti del passato, così come si sono realizzati. In altre parole, si continua a considerare la Bibbia un’esposizione ordinata e documentata di come si sono svolti gli avvenimenti umani che noi conosciamo anche attraverso i racconti di scrittori appartenenti ad altri popoli antichi. A questi si concede ampia fiducia che invece viene rifiutata agli autori biblici accusati, senza mezzi termini, di essere dei mistificatori. Purtroppo l’idea contraria è stata diffusa per secoli negli ambienti religiosi che intendevano giustificare l’origine divina della Sacra Scrittura che, se aveva Dio come autore, non poteva insegnare come verità ciò che non lo era. Il principio è giusto: Dio non può insegnare il falso. Il problema però riguarda ciò che Dio vuole “insegnare” e di quali mezzi si sia servito per farlo. Si è accettato il fatto che il mondo materiale venga descritto come appariva agli occhi di tutti – e che continui ad apparire tale anche a noi – ma si rifiuta ancora l’ipotesi che anche la storia sia raccontata “come la conoscevano gli antichi”. Si accettano gli autori di altri popoli quando raccontano la loro storia senza riflettere che anch’essi scrivevano con gli stessi criteri usati da chi ha raccolto e tramandato i ricordi che spiegavano le lontane origini del popolo ebraico. Gli studiosi di letterature antiche hanno dato un nome a questo modo di raccontare e lo hanno definito come “epopea”. Tutti sanno che nel racconto epico i fatti e i personaggi storici hanno valore per il loro significato e non per l’esatta corrispondenza ad una realtà che sfuggiva agli antichi e ancora di più a noi. Tra gli studiosi cattolici è almeno dal 1943 che si parla di “generi letterari”, cioè modi di raccontare i fatti comuni ad una determinata epoca o cultura. Si tratta sempre, come si vede, di fenomeni letterari, gli unici in grado di spiegare dei testi composti da parole. Le pietre o i cocci portati alla luce dal lavoro degli archeologi possono aiutare a capire le parole, ma non possono mai sostituirsi ad esse. Nell’articolo di Repubblica si afferma tra l’altro con grande enfasi: “Le città di Canaan non erano «grandi», come si legge nella Bibbia, non erano fortificate, non avevano mura «che si levavano alte fino al cielo»”. È vero che queste frasi si leggono nella Bibbia, ma sono attribuite agli esploratori che, di ritorno dalla loro ispezione nella terra di Canaan, vogliono dissuadere gli Ebrei dal tentare la conquista e perciò esagerano le difficoltà per scoraggiare il popolo. Basta leggere il racconto nel libro dei Numeri al capitolo 13 versetti 28 e 31-35 per capire che quella descrizione “si trova nella Bibbia” ma “non è della Bibbia” che si limita a riferire un’opinione che ritiene non corrispondente alla verità “storica”. Non vorrei esagerare ma, almeno in questo caso, la Bibbia “conferma” autorevolmente le scoperte degli archeologi. Che poi nel libro di Giosuè si parli del crollo delle mura di Gerico (Giosuè cap. 6) è una questione che va affrontata dal punto di vista linguistico prima di tutto, come si dovrebbe fare sempre. Si dovrebbe stabilire il significato da dare al termine ebraico “chomah” che indica certamente il muro di difesa di una città, ma che è usato anche in più di un caso in senso metaforico per indicare appunto una “difesa” che può essere costituita da uomini (come nel caso di 1 Samuele 25,16) oppure dall’acqua del Nilo che circonda la città di Tebe e la difende dai nemici (Nahum 3,8) o dall’acqua del mare di cui si parla in Esodo 14,22.29 testo che ha alimentato la fantasia di intere generazioni, ancora restie a far crollare le “muraglie del Mar Rosso”, tanto care agli effetti speciali hollywoodiani quanto assolutamente estranee al testo biblico. Non è di ieri l’interpretazione suggerita da alcuni studiosi, che Gerico fosse difesa non da una cinta muraria ma da una guarnigione di soldati molto ben addestrati a combattere con le spade ma del tutto impreparati ad affrontare un nemico che li aggrediva con un chiasso assordante. Teru’a ghedolah dice il testo ebraico, dove teru’a indica già di per sé il grido di guerra che però viene qui descritto come ghedolah cioè grande, forte, assordante. Il racconto induce a pensare che quei quattro gatti di Ebrei abbiano voluto impressionare i difensori di Gerico passando e ripassando sotto il loro naso per dare l’impressione di essere in tanti. I giri ripetuti intorno alla città dovevano servire anche a monitorare le difese nemiche, cercando di individuare i punti deboli dove sferrare l’assalto. Contemporaneamente dovevano servire a memorizzare le fasi dell’attacco senza bisogno di ricevere ordini dagli ufficiali. Cosa che ha sorpreso i difensori rimasti sconcertati dal frastuono infernale scatenato dagli aggressori che impediva di ricevere gli ordini su come reagire. Insomma, si sarebbe trattato di un capolavoro di strategia militare che sopperiva all’inferiorità numerica giocando a carte scoperte ma barando fino in fondo e sfruttando il fattore psicologico. Non ho mai fatto il servizio militare e non so se la mia ricostruzione trovi il consenso degli strateghi dell’esercito. Ma non mi interessa. Sono sicuro che invece è in linea con altri racconti della Bibbia che sviluppano lo stesso tema e che potrebbe essere riassunto in una battuta: la furbizia ha sempre la meglio sulla forza. Che poi questa furbizia sia considerata un dono che Dio concede a chi si fida di lui è un fatto che riguarda la fede e non potrà mai essere né confermato né smentito. Un altro racconto di vittoria “impossibile” si trova nel libro dei Giudici al capitolo 7. Si tratta del trionfo di Gedeone contro i Madianiti. Sembra la fotocopia di quanto descritto per Gerico, con i dovuti adattamenti. Anche qui abbiamo un nemico numerosissimo (“ i cammelli – dei Madianiti – erano senza numero come la sabbia che è sul lido del mare”) mentre gli Ebrei (che volevano opporre i loro numeri) sono ridotti ad appena trecento per esplicito volere di Dio. Gedeone con un servo va a spiare il campo nemico e sente raccontare un sogno premonitore. Studia una strategia adatta al caso e la comunica ai suoi trecento soldati scelti e addestrati sul campo. Al frastuono improvviso si aggiunge l’effetto delle fiaccole che si accendono contemporaneamente tutto intorno all’accampamento nemico. L’effetto psicologico è devastante. Svegliati bruscamente dal sonno i soldati cercano le armi ma finiscono per usarle contro i loro commilitoni, mentre gli Ebrei rimangono immobili a godersi lo spettacolo accompagnando la carneficina con il suono delle loro trombe. È una scena fantastica nella sua tragicità che unisce però anche l’ironia del piccolo e debole che riesce a superare il forte grazie alla sua astuzia. Sarebbe lungo, ma interessante, raccogliere gli altri racconti di questo “genere letterario” e confrontarli tra di loro, a partire ad esempio dall’episodio di Davide e Golia. Penso che di fronte a racconti così coerenti nel voler dimostrare il principio che abbiamo ricordato non abbia più alcun senso la domanda: “Sono racconti storici o sono inventati? Sono veri o sono falsi?”. Semplicemente è una domanda assurda, che non ha senso. Gli esempi portati dimostrano che la verità ha altre dimensioni che non si possono ridurre all’esistenza o meno di una pietra muta. La verità di racconti del genere sta nel presentare una caratteristica universalmente riconosciuta al popolo di Israele e bene espressa nella figura di Davide contrapposto a Golia. Si dirà che sto dando ragione all’archeologo di Tel Aviv. In realtà c’è una piccola differenza: Herzog e il giornale che lo ha pubblicato, vogliono squalificare la Bibbia facendola passare per una favola – io cerco di “capire” la Bibbia e mi sforzo di aiutare chi mi legge ad arrivare allo stesso risultato. Per capire meglio la Bibbia forse sarebbe più utile scavare nei dizionari e leggere tra le righe dei testi antichi, piuttosto che cercare sotto la sabbia del deserto testimonianze mute o che non sono mai esistite. Ma su questo argomento c’è ancora molto da dire.