MenuPagine

Benvenuti alla Scala dei Santi

EOLP - EuropeanOpenLearning Publisher
Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 8 ottobre 2016

IL PRIMO “MISSA EST”

LO HA DETTO GESÙ

Ci teneva molto a fare quella cena con gli amici che si era scelto. Gesù aveva indicato personalmente il luogo e aveva dato l’incarico a due apostoli fidati, Pietro e Giovanni, di preparare la tavola in una stanza già addobbata per la festa di Pasqua. Doveva essere per ogni ebreo una cena speciale dove nulla era lasciato al caso. Ogni gesto, ogni parola, ogni boccone, ogni sorso di vino era carico di significati e doveva essere fatto in un momento preciso indicato da un ordinamento che aveva finito per indicare la stessa cena, Era il “sèder” nome che è rimasto fino ad oggi nella tradizione ebraica.
In questa ritualità così rigida, Gesù introduce degli elementi nuovi che assumono quindi un valore particolare. I racconti dei vangeli non si fermano a spiegare le varie fasi della cena. Erano conosciute da tutti. Ogni evangelista ricorda solo quegli aspetti di novità che rientrano nel profilo di Gesù che sta delineando. La cena rituale che celebra la Pasqua è soltanto lo sfondo che fa risaltare e mette nella giusta luce la continuità con la tradizione ebraica e la nuova realtà attuata da Gesù.

Le novità introdotte da Gesù. La prima:
il Maestro lava i piedi ai discepoli
La prima sorpresa è narrata da Giovanni: Gesù lava i piedi agli invitati. Era un rito abituale, un gesto nato per motivi pratici e poi diventato segno di accoglienza e di rispetto verso gli ospiti. Era tanto ovvio che non c’era bisogno di farlo oggetto di particolari prescrizioni. Non era certo il padrone di casa che provvedeva personalmente alle abluzioni degli ospiti. Suo dovere era procurare il necessario alla bisogna e offrire spazio e tempo per espletare il tutto. In un’occasione Gesù aveva rinfacciato senza peli sulla lingua ad un fariseo la mancanza di questo gesto di buona educazione e aveva lodato la donna che vi aveva provveduto diversamente.
Il gesto compiuto da Gesù in modo insolito, contro le consuetudini aveva colto di sorpresa gli apostoli. Il solito Pietro reagisce tra l’imbarazzo generale ed esagera con le sue proteste costringendo Gesù a spiegare il significato di quanto aveva fatto: era un esempio del servizio che i suoi discepoli dovevano seguire nei rapporti tra di loro.

Seconda novità:
Gesù manda via Giuda
Ma le sorprese non erano finite. La cena che doveva rievocare la tragedia vissuta dagli Ebrei tanti anni prima diventava lo scenario del dramma che avrebbe travolto Gesù e gli apostoli quella stessa notte. L’ombra del tradimento prendeva la forma di uno dei presenti. Il suo nome non viene pronunciato ma è indicato con un gesto che esprime amicizia e rispetto che non impediscono però a Gesù di usare parole decise che non ammettono replica. Il traditore smascherato deve abbandonare la cena che continuerà senza di lui.
Il gesto di familiarità consisteva nell’offerta di un pezzo di pane azzimo intinto in qualche preparato liquido o fatto con ingredienti ridotti in pezzetti. Sulla tavola si trovavano cibi differenti ma rispondenti alle prescrizioni del menu descritto nel sèder, l’ordinamento della cena di Pasqua. C’era l’uovo sodo, una zampa di capretto, delle erbe amare, un gambo di sedano, il pane azzimo sotto forma di gallette tondeggianti rigide o morbide (matzot) e infine il preparato semisolido fatto con frutti diversi detto in ebraico charòset. Il pezzo di pane strappato dalla galletta o cialda veniva così insaporito intingendolo nel charòset. A completare il menu  era presente anche il vino che si doveva bere in momenti fissati dall’ordinamento della cena.
Naturalmente il racconto di Giovanni presuppone tutte queste informazioni che per noi sono necessarie per capire il significato di un gesto che non ci è abituale. L’esclusione di Giuda Iscariota (in ebraico Ish Qeriot cioè Uomo di Qeriot?) dal proseguimento della cena è dovuta all’incompatibilità del suo comportamento con quanto Gesù stava per fare con gli altri apostoli. Giovanni non lo dice e si dilunga a riferire il dialogo con gli undici rimasti, nel quale Gesù manifesta i suoi sentimenti più intimi.
Gli altri evangelisti ricordano l’annuncio del tradimento ma tralasciano l’allontanamento di Giuda per concentrare l’attenzione sul pane e sul vino con le parole di Gesù che ne spiegano il nuovo significato che assumono. I quattro racconti sembrano integrarsi tra di loro riferendosi ad un unico avvenimento presentato però con intenti diversi. Letta in questa prospettiva, la cena risulta nettamente divisa in due parti dall’ordine dato a Giuda di allontanarsi al più presto. Anche il particolare del boccone di pane azzimo insaporito con il charòset fa pensare al pane semplice, senza condimenti, sul quale Gesù pronuncerà quelle parole misteriose prima di distribuirlo ai discepoli.

Terza novità:
riduzione del menu al pane e al vino
Pane e vino sono gli alimenti comuni alle due parti della cena e ne evidenziano la continuità, ma allo stesso tempo diventano i protagonisti unici nella seconda parte del banchetto determinandone l’originalità. Il comportamento di Gesù, inserito in un rituale celebrativo piuttosto rigido, se ne discosta non come contrapposizione ma come sviluppo di elementi precedenti.
Accogliendo l’invito del Maestro di “fare memoria” (la parola ebraica zikkaron era carica di significati evocativi!) i discepoli hanno concentrato la loro attenzione soprattutto sugli elementi innovativi portati alla cena di Pasqua, cancellando dal menu previsto dal sèder tutte le portate, ad eccezione del pane e del vino considerati nella nuova prospettiva indicata dalle parole di Gesù. Si manteneva così l’idea del banchetto con la presenza del Maestro, ma diventava sempre più evidente che non si trattava di una cena finalizzata al nutrimento del corpo.

Le prime “cene-ricordo” fatte dai cristiani
Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto descrive una situazione in cui questa consapevolezza non si era ancora affermata. Alla cena comune ognuno si portava il proprio menu che non condivideva con gli altri evidenziando così le differenze sociali tra ricchi e poveri. A conclusione dell’incontro conviviale si “faceva memoria” di quanto aveva fatto e detto Gesù, dopo di che ognuno tornava alla propria casa, chi a stomaco pieno e chi a stomaco vuoto. Non era facile, in quelle condizioni, distinguere tra il pane inzuppato nelle varie salse più o meno piccanti e il pane insipido che Gesù aveva detto essere il suo corpo.
Paolo taglia corto. Dato che quando siete un po’ brilli fate fatica a riconoscere il corpo di Cristo, mangiate e bevete a casa vostra – scrive ai cristiani di Corinto – e poi, quando avete smaltito la sbornia, radunatevi pure ma solo per fare memoria della cena del Signore. E conclude con una minaccia pesante di condanna per chi non tiene conto delle sue indicazioni.
È chiaro che Paolo non è mosso da preoccupazioni moralistiche per evitare la contaminazione del corpo di Cristo a contatto con i cibi. Lo stomaco ingombro  – lo sapevano tutti anche allora – appesantisce la mente, annebbia il cervello e rallenta i riflessi rendendo ancora più difficile riconoscere in quel pane una presenza accolta per fede. Paolo non prescriveva ricette mediche (“una pasticca al mattino a digiuno”) ma applicava semplicemente il criterio che usava riguardo ai cibi, compresa la carne offerta nei sacrifici agli idoli.
Chi è nato prima del Concilio Vaticano secondo ricorderà certamente la rigidità con cui si interpretava il digiuno eucaristico, basandosi proprio sul rispetto dovuto alle “sacre specie”. Si spiegano così anche le resistenze che bloccano ancora molti cattolici impedendo di ricevere sulla mano il pane consacrato.

Sèder e Messa a confronto
Tralasciando altre considerazioni, riprendo il confronto tra i due termini con cui sono identificati la cena pasquale ebraica e la cena del Signore della liturgia cattolica. La parola ebraica sèder è un termine generico e indica una serie di indicazioni da seguire per compiere un’azione complessa e può riguardare la celebrazione di festività religiose. Nell’uso si è venuto ad identificare con la festa più importante, la Pasqua, fino a diventare quasi un suo sinonimo.
Nel caso della celebrazione cattolica, il termine messa, originato forse da una parola latina intesa come “commiato” o “saluto di congedo” indicava l’atto conclusivo dell’incontro di preghiera dei fedeli. Quando il popolo ha perso la familiarità con la lingua latina ha però conservato nella memoria il suono di quella parola, l’ultima che sentiva pronunciare dal sacerdote. Il passo ad indicare con quel nome tutto quello che precedeva era inevitabile ed è stato compiuto con le conseguenze che sperimentiamo ancora oggi.
La storpiatura di espressioni latine e greche è un fenomeno linguistico noto e frequente nella lingua italiana e nei vari dialetti, basti pensare alla “befana” (da “epifania”) o all’espressione “andare in visibilio” (dal Credo: “visibilium omnium et invisibilium” [Dio creatore] di tutte le cose visibili e invisibili). Cercando sulla rete, si possono trovare numerosi esempi di storpiature di frasi latine sentite pronunciare nella liturgia, ma ognuno potrebbe aggiungerne altre pescate nei ricordi personali. Tra quelli che mi vengono in mente dalla mia infanzia è il modo di manifestare la fiducia nella protezione materna di Maria da parte delle vecchiette che cantavano in piemontese: “Ca tempesta (cioè, grandine) pura, mi la paro tuta” [può anche grandinare, io la raccolgo tutta] che traduceva il latino dell’Ave maris stellavitam praesta puram, iter para tutum” [concedi una vita pura, prepara un cammino sicuro].
La parola “messa” non storpiava il suono ma il significato di ciò che voleva indicare. Non meraviglia che ciò sia avvenuto in tempi lontani per opera di un popolo che stava forgiando la propria lingua. Meno comprensibile che in una società come la nostra che rifiuta termini chiarissimi e ben stagionati come spazzino, bidello, cieco, ecc. sostituendoli con espressioni tipo: netturbino sostituito a sua volta da operatore ecologico, oppure personale parascolastico, o ancora ipovedente, oppure con diversamente abili ecc. non si percepisca l’inadeguatezza di una parola ad indicare l’oggetto a cui è stata abbinata, come appunto nel caso della messa.
      Non mi illudo che si arrivi a cambiare il vocabolario. Mi basterebbe anche solo che si avesse il coraggio di dire a chi non condivide le nostre convinzioni sul pane e sul vino che mangiamo e beviamo nella cena del Signore: “Caro amico, ci salutiamo qui. Adesso lasciaci perché stiamo per fare una cosa che sarebbe troppo lungo spiegarti. Mi sembra una mancanza di rispetto verso di te, invitarti a vedere noi che mangiamo e beviamo mentre tu stai a digiuno”.
È evidente che questo discorsetto non va fatto solo ai musulmani ma anche a tutti quelli che, battezzati o no, non credono più o non hanno mai creduto a quanto ha detto Gesù su quel pane e sul vino dopo aver imposto a uno degli invitati di abbandonare immediatamente la compagnia: “Torna a casa tua, per te l’incontro è terminato” Ite, missa est!