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Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 3 settembre 2016

LETTERA APERTA

AL PRIORE DI BOSE & FOLLOWERS


Mi sono imposto di mantenere un silenzio rispettoso di fronte alla tragedia che ha travolto tante persone, convinto che a volte le parole possono essere inopportune. Ne ho avuto la dimostrazione vedendo i fiumi di commenti che si sono riversati dai giornali e dagli schermi televisivi. Le notizie e le immagini parlavano da sole ma si sono mescolate e a volte sono state sopraffatte da tanta retorica, poesia, polemiche, accuse, insinuazioni maligne, promesse.
Passati i primi giorni dal terremoto devastante, la vita sta riprendendo i suoi ritmi soliti. Mi è ritornato in mente un tema che avevo accantonato ma che mi sembra doveroso riproporre perché continua ad essere attuale. Lo spunto mi è stato offerto dalla conclusione della settimana liturgica nazionale svoltasi a Gubbio a metà di agosto, in particolare dall’intervento del priore di Bose, Enzo Bianchi.

L’ammirazione e la stima generale che io condivido, verso questo personaggio carismatico, mi hanno creato non poche difficoltà. Infatti non mi sono trovato in sintonia con alcune sue affermazioni riportate dall’articolo dell’Avvenire di venerdì 20 agosto a pag. 20. Sono frasi virgolettate e quindi, stando alle consuetudini della comunicazione giornalistica, dovrebbero corrispondere a quanto detto veramente.

La sindrome di “Don Chisciotte”
Mi sento in dovere di fare queste precisazioni perché mi rendo conto di muovermi su di un campo minato. Infatti il mio disaccordo non è solo nei confronti dell’illustre biblista ma anche contro la schiera numerosa dei suoi sostenitori a cui si aggiungono tanti altri che, indipendentemente dal riferimento al monaco carismatico, stanno sostenendo idee simili alle sue.
Forse sono stato infettato dal virus di Don Chisciotte, il cavaliere solitario, solo contro tutti. È un sentimento esaltante, anche se poi si tratta di avversari creati solo dalla sua fantasia. Nel nostro caso sono convinto che non è così, purtroppo, ma voglio precisarlo per ribadire che sono consapevole dei pericoli a cui vado incontro.
Ma cosa avrebbe detto di tanto sconvolgente il priore di Bose? Niente di straordinario, ha solo sottolineato con la solita forza quello che si vuole imporre come pensiero comune, religiosamente corretto. Di proprio forse ha aggiunto solo qualche “etichetta” per identificare quelli che sostengono idee diverse e così poterli isolare. Peccato che si sia lasciato prendere la mano (o la lingua), appioppando in modo indiscriminato agli oppositori qualità e attributi che non tutti condividono.

Copio e incollo dall’articolo di Avvenire. “Purtroppo molti tra gli uomini e le donne del nostro tempo sono tenuti lontano dal Signore proprio dalla pretesa giustizia dei credenti, dei ‘cristiani del campanile’, di quelli che vantano un’appartenenza alla Chiesa sentendosi già salvati, e sovente allontanano i peccatori, emarginano quelli che hanno un comportamento che contraddice la legge e li pone ‘fuori dal campo’”.
Ma quali cristiani frequenta il nostro priore? La domanda mi era già venuta in mente prima quando descriveva una Chiesa “nuovamente timida, paurosa e tentata dal rigore, con sguardi nostalgici verso i tempi passati, quelli della cristianità”. O anche quando presentava la giustizia contrapponendola alla misericordia con le parole della Bolla di indizione dell’anno giubilare: “una giustizia come mera osservanza della legge, che giudica dividendo le persone in giusti e peccatori”.
Non posso certo ignorare i numerosi frequentatori del monastero in quel di Bose, esperienza che non ho avuto la fortuna di fare, ma l’immagine di Chiesa presentata non mi pare corrispondente alla realtà che conosco io. Non riesco a vedere nell’atteggiamento dei cristiani di oggi tutto questo desiderio di giustizia che sembra assillare non solo Bianchi. Piuttosto mi sembra prevalente l’indifferentismo che parte dalla pratica per trasformarsi in teoria che giustifica ogni comportamento scelto dal singolo.
      Una contrapposizione deleteria
Perché non lo si dice chiaramente? Perché si continua ad alimentare una polemica che non ha nessun fondamento biblico? Perché il biblista Enzo Bianchi non spiega che, come ci hanno dimostrato i nostri maestri al PIB di Roma (ha conosciuto p. Lyonnet?), Dio agisce con giustizia quando realizza i suoi progetti di salvezza? È evidente l’equivoco che nasce dall’uso del termine “giustizia” sia per indicare una “mera osservanza della legge” e sia per indicare l’azione di Dio che sarebbe meglio definire “fedeltà” alle sue promesse. Promesse che, ricordiamolo, non prevedono mai la soppressione della libertà dell’uomo con la responsabilità delle proprie scelte.
Perché si ironizza sui cristiani che riflettono sulle interpretazioni di comodo date da alcuni al documento Amoris laetitia definendoli “maestri esperti nell’inoculare il sospetto, il dubbio, la paura. Costoro temono che la misericordia diventi un ‘lasciar fare’, varco verso una superficialità che toglie la responsabilità, che finisca per favorire un cristianesimo debole”. Questi cristiani sarebbero infetti dal “virus del giusto incallito, del religioso che si crede salvo”, in altre parole sarebbero degli ipocriti.
E no, questo insulto frequente in certi ambienti contrari alla Chiesa non me lo sarei mai aspettato da un maestro di vita spirituale che lo rivolge tranquillamente a tutti quelli che non si adeguano al linguaggio ufficiale. Che vi sia ipocrisia in alcuni ambienti della nostra Chiesa è innegabile, ma forse non è la qualifica che caratterizza i semplici battezzati.
E così contestando le generalizzazioni ci sono cascato anch’io. Non tutti i pastori sono ipocriti, e lo riconosco con gioia. Però si riconosca anche che non tutti quelli che dissentono dalla linea ufficiale sono ‘cristiani del campanile’ che si sentono già salvati in quanto colpiti dal “virus del giusto incallito”.

Alcuni interventi dei profeti
Si dà il caso che qualcuno rifletta seriamente, ad esempio, sul versetto 17 del capitolo 23 di Geremia che accusa i profeti che “dicono a coloro che disprezzano la parola del Signore: Voi avrete la pace! E a quanti seguono la caparbietà del loro cuore dicono: Non vi coglierà la sventura”. In questo modo “danno mano ai malfattori, sì che nessuno si converte dalla sua malvagità” (23,14b). Geremia li esorta in nome di Dio: “Facciano udire le mie parole al mio popolo e li distolgano dalla loro condotta perversa e dalla malvagità delle loro azioni” (23,22b).
Chiedere che queste parole siano presentate chiaramente, senza equivoci, senza edulcorazioni, con la stessa insistenza con cui si parla della misericordia significa forse “inoculare il sospetto, il dubbio, la paura”? Sarà un caso, ma anche Geremia è stato accusato di scoraggiare i guerrieri e tutto il popolo con le sue parole (Geremia 38,4).
Nel libro di Isaia è descritta una situazione simile: “questo è un popolo ribelle, sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: ‘Non abbiate visioni’ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo di Israele’” (Isaia 30,9-11).
“Diteci cose piacevoli”: è sorprendente questa richiesta per la sua attualità in una società condizionata dai sondaggi di opinione, dal numero di ‘like’, dai dati forniti dall’Auditel che determinano l’offerta dei prodotti commerciali. Non c’è il pericolo che anche la verità venga proposta con le caratteristiche richieste dal “mercato dei desideri”? Siamo sicuri che sia impossibile il formarsi di una “oclocrazia intellettuale” fondata sul consenso manipolato da interessi economici piuttosto che su valori morali?
Il libro del profeta Michea, conosciuto principalmente per il riferimento a Betlemme come luogo della nascita del Messia, ha una pagina sconvolgente per la denuncia violenta dei legami tra interessi economici e annuncio della legge di Dio (capitoli 1-3). Il profeta accusa quelli che detengono il potere perché “sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono (2,2a), “da chi è senza mantello [esigono] una veste, dai passanti tranquilli un bottino di guerra” (2,8b), “Divorano la carne del mio popolo e gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi come carne in una pentola, come lesso in una caldaia” (3,3),
Anche i profeti, pur non avendo potere politico, approfittano del prestigio di cui godono e “fanno traviare il mio popolo, […] annunciano la pace se hanno qualcosa tra i denti da mordere, ma a chi non mette loro niente in bocca dichiarano la guerra” (3,5). Ed ecco la sintesi conclusiva: “i suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro” (3,11).
Siamo sinceri: la tentazione di leggere queste accuse pesanti applicandole alla situazione presente è molto forte. Sembra il copione di certi dibattiti televisivi o la raccolta degli striscioni di protesta da una parte e dall’altra. Penso alla campagna orchestrata contro l’8 per mille in favore della Chiesa, alle esenzioni fiscali sui beni ecclesiastici, alle raccolte di fondi promosse da organizzazioni cattoliche, alle ristrutturazioni di case e appartamenti da parte del clero, allo sfarzo spettacolare di certe manifestazioni etichettate come sacre, e si potrebbe continuare.
Se un cristiano pensa che parlando solo di misericordia si corra il rischio di trasmettere un messaggio subliminale che giustifica i comportamenti denunciati dai profeti, quale etichetta si merita? È un conservatore? Un nostalgico? Un leguleio? O è un rivoluzionario? Un comunista? O che cos’altro? Savonarola o Giordano Bruno oppure un Rosmini? Un laudator temporis acti o un profeta dei nuovi tempi?
Se si condividono le denunce fatte dai profeti non c’è forse il pericolo di “dire cose piacevoli” assecondando le richieste di alcuni con l’illusione di proclamare la verità? Non è forse anche questa una forma subdola di oclocrazia contrapposta a quella “buonista”?
Mi accorgo che evidenziando la difficoltà di trovare un equilibrio tra le interpretazioni della situazione complessa in cui viviamo sono entrato nel numero dei “maestri esperti nell’inoculare il sospetto, il dubbio, la paura”, secondo l’etichetta confezionata a Bose.


… e veniamo al “qiqajon"
Vorrei concludere queste considerazioni con una provocazione che nelle mie intenzioni è scherzosa, un gioco di parole, niente più. Vorrebbe solo evidenziare come da un’etichetta si potrebbero trarre delle conclusioni assolutamente fuori dalla verità. Ci provo.
“Qiqajon” è il logo che sintetizza lo spirito e le attività della comunità monastica di Bose. La parola ebraica indica la pianta di ricino e ricorre nella conclusione del libro di Giona. Dal ricino si ottiene un prodotto ben noto e usato generosamente negli anni dell’EF per evacuare l’intestino degli oppositori del regime con la speranza di evacuare anche il loro cervello. La scelta del “Qiqajon” come proprio logo, può essere dunque intesa come un messaggio cifrato allusivo dell’ideologia politica che ispira le attività del gruppo con sede nel monastero, comoda copertura religiosa per nascondere progetti sovversivi.

Sono sicuro che non è così. È solo fantapolitica, su cui purtroppo sono stati costruiti non solo romanzi ma processi iniqui in un passato nemmeno tanto remoto. Ecco il pericolo derivante da etichette approssimative applicate con troppa facilità a realtà complesse che spesso non hanno nulla in comune con il ritratto che pretende di rappresentarle.
Certamente siamo tutti animati dallo stesso desiderio: cambiare in meglio questa società di cui siamo disgustati. Cerchiamo di farlo con un linguaggio comune che sia espressione di quella parresia che dovrebbe animarci tutti nel proclamare la verità tutta intera e non dimezzata.