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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

giovedì 26 febbraio 2015

TEMPERANZA E LAVORO


TEMPERANZA E LAVORO

COME LIBERTÀ PER DIO

 

Premessa

                Questa riflessione è stata pensata come un tutt’uno con la visione di alcune scene di intemperanza in diverse situazioni di vita. Suggerisco di preparare un montaggio piuttosto rapido di immagini tratte da filmati differenti per comunicare l’impressione di una crescita incalzante della violenza che non risparmia nemmeno i luoghi che dovrebbero essere sede di confronto civile tra idee diverse (parlamento), o destinati al divertimento (TV, spettacolo), o alle esigenze normali delle persone (strada…). La presentazione non dovrebbe superare i tre minuti e dovrebbe comprendere possibilmente scene di attualità riguardanti episodi conosciuti dal pubblico presente.



Suggerisco alcuni link ad episodi di intemperanza. La rete offre un’ampia possibilità di scelta.
 
       Apriamo il vocabolario
Abbiamo dedicato tre minuti a vedere alcuni filmati che presentano episodi di intolleranza in diverse occasioni della vita. Avremmo potuto continuare con scene analoghe che si possono facilmente visualizzare su internet cercando altri sinonimi come risse, bullismo, sballo, ubriachezza, droga, violenza, prepotenza, sopruso… tutti termini apparentati, discendenti diretti della madre comune che, con linguaggio da intellettuali chiamiamo: INTEMPERANZA.
Questa a sua volta è la sorellastra cattiva di quella che viene chiamata TEMPERANZA. In realtà possiamo immaginarle come le due facce della stessa medaglia, una con la carica negativa e l’altra con carica positiva. Si tratta di un’energia enorme concentrata nell’animo umano, che può ottenere risultati devastanti o, al contrario essere fonte di attività creative volte al bene e al progresso.
Noi cristiani siamo collegati con le radici che affondano nella Bibbia e da questa attingiamo una enorme fiducia nel valore delle parole. Ecco perché cerchiamo nei vocabolari e dizionari il senso esatto dei termini che usiamo, consapevoli di maneggiare degli strumenti molto delicati da cui dipende la comprensione, e quindi l’accettazione o il rifiuto, del messaggio che vogliamo trasmettere. Naturalmente io mi muovo nel contesto della lingua italiana che offre il vantaggio di derivare direttamente dalla lingua latina dalla quale abbiamo ereditato, tra tante altre, anche la parola sulla quale riflettiamo: TEMPERANZA che anche nel suono riproduce l’originale temperantia.
La parola deriva dal verbo latino temperare, che significa “mescolare in giuste proporzioni”. È evidente che questa operazione presuppone la presenza di elementi differenti tra di loro, cioè una varietà di componenti. Temperare dunque significa trovare un giusto dosaggio tra gli ingredienti richiesti dalla ricetta che permetterà di ottenere un cibo ricco di sapori, gradito al gusto e invitante. Come si vede, l’etimologia del verbo non esige di per sé l’esclusione di qualche elemento, se non di quelli dichiaratamente nocivi, velenosi o anche solo disgustosi. Non si tratta di eliminare ma di armonizzare tra di loro realtà anche contrastanti per ottenere qualcosa di nuovo nel quale l’inventiva, la fantasia e l’originalità hanno un peso determinante.
Il sostantivo derivante, temperantia, indica dunque la capacità di “regolare con saggezza ed equilibrio il soddisfacimento dei bisogni e appetiti naturali” come definisce la nostra Enciclopedia Treccani. Che questa capacità non sia patrimonio comune ma che appartenga a pochi e che sia frutto di ricerca e di impegno costante ha indotto a considerarla una “virtù morale” che contraddistingue l’uomo saggio, consapevole delle proprie forze e debolezze, delle aspirazioni e delusioni, alla ricerca della felicità e che non si dichiara vinto se non la raggiunge pienamente.
Non si tratta dunque dell’atarassia stoica che cercava la felicità nella pace dell’anima vista come assenza di reazioni sentimentali fino a diventare apatia. La temperanza invece presuppone un’attività intensa della persona che cerca di costruire nuovi equilibri tra dinamiche contrastanti mettendo in gioco la propria libertà, consapevole dei rischi che comporta l’attenzione continua e il dominio delle proprie azioni.
La poca attenzione al vero significato delle parole ha giocato un brutto scherzo ai nostri antenati. Il dominio delle passioni e degli istinti naturali è diventato spesso, nell’interpretazione comune, l’aspetto prevalente della temperanza fino ad identificarsi con essa. Inoltre il “dominio degli appetiti naturali” è stato inteso come repressione totale di tutto ciò che proveniva dalla natura umana, soprattutto se legato alla materia, alla “carne”.
Ma il verbo dominare non significa eliminare o distruggere. Deriva dal latino “dominus” cioè padrone ed indica il comportamento di chi esercita il potere su persone o luoghi reali o in senso figurato. È ovvio che il padrone (normalmente!) ha interesse a conservare e migliorare i propri beni, non a distruggerli. Anzi, l’espressione “dominare una macchina, un attrezzo, una lingua” significa sfruttarla al meglio delle sue possibilità ricavandone il maggior vantaggio possibile. Tutto l’opposto del senso negativo dato spesso al “dominio” quando lo si riferisce alle passioni che dovrebbero essere eliminate completamente dalla vita dell’uomo, almeno secondo certe interpretazioni ascetiche di origini extra bibliche. Ma la temperanza secondo l’insegnamento della Bibbia non è odio del corpo o disprezzo dei sentimenti.

Che cosa dice il Catechismo
Il Catechismo della Chiesa Cattolica assume nel proprio insegnamento la virtù morale della temperanza inserendola al quarto posto tra le “virtù cardinali” nel senso che sono viste come i cardini attorno ai quali si muove tutta la vita dell’uomo (nn. 1803-1809). La prima è la prudenza, seguita dalla giustizia, dalla fortezza e dalla temperanza. Queste virtù sono elencate già nel libro della Sapienza: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza » (Sap 8,7).
Nella presentazione delle singole virtù il Catechismo mette in evidenza una caratteristica comune, che si potrebbe definire aspetto dinamico. In questa prospettiva si evita il pericolo di intenderle come rinuncia a qualcosa di negativo, prospettando invece l’impegno che richiedono per costruire una personalità autonoma e responsabile, condizione assoluta per essere felici.
Mi pare importante, anche perché è il tema che mi è stato proposto,  sottolineare quanto è detto a proposito della giustizia: «è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto» (n. 1807). Troviamo qui la convinzione che la fede in Dio ha un fondamento nella razionalità, è un atto dovuto per giustizia. Vedremo più avanti che anche il rapporto con Dio deve essere guidato dalla temperanza, principio che si fa derivare proprio dalla stessa natura di Dio, quindi è un atto razionale. Come si vede, siamo ben lontani dal fideismo ingenuo come anche dalla negazione di tutto ciò che non è analizzato dai nostri strumenti scientifici.
La temperanza è descritta al n. 1809: «modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore».

Che cosa dice la Bibbia nell’Antico Testamento
A sostegno di questa affermazione (tra l’altro molto “temperata”, cioè equilibrata) viene citato il testo del Siracide: «Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri» (Sir 18,30). Se continuiamo a leggere i versetti che seguono saremo sorpresi del realismo che li anima. Il desiderio incontrollato spinge a gesti irrazionali che si ritorcono contro chi li compie. Merita di essere letto il v. 18,33 per la sua attualità nella vita politica di oggi che minaccia la stessa sopravvivenza di intere nazioni indebitate fino a dover dichiarare la propria insolvibilità: «Non impoverire scialacquando con denaro preso a prestito, quando non hai nulla nella borsa».
Non sono un economista, ma penso che non ci sia bisogno di essere tecnici di politiche economiche per capire il valore di un’osservazione che rasenta la banalità tanto è evidente. Non occorre fare molti calcoli per la spending revue per rendersi conto della stupidità di chi per non rinunciare alla soddisfazione di un momento si carica di debiti che lo renderanno schiavo dei creditori per tutta la vita. Anche in questo caso la temperanza non richiede la rinuncia al denaro o alla ricchezza, ma indica la necessità di pianificare le spese sulla base delle proprie possibilità finanziarie. Prevede anche la possibilità di un indebitamento rischioso, ma a patto di investire in attività produttive. Comunque si tratta sempre di una virtù dinamica che sappia organizzare le energie mediante programmi articolati che mirano allo sviluppo e al miglioramento delle condizioni di vita.
Anche il capitolo 19 continua sulla stessa linea con esempi concreti di intemperanza che porta al fallimento della vita in cambio di una felicità illusoria ed effimera. «Un operaio ubriacone non arricchirà… Vino e donne traviano anche i saggi…» (19,1-2). Le cronache di questi anni (non solo in Italia…) confermano impietose l’analisi del Siracide che prosegue nella sua denuncia descrivendo i comportamenti derivanti dalla presenza o dall’assenza delle altre virtù che formano la base della temperanza: prudenza (v. 19), giustizia (vv. 13-17), fortezza (v. 26-27).
«Non riferire mai una diceria… non parlarne né all’amico né al nemico… non svelar nulla… Hai udito una parola? Muoia con te! Sta’ sicuro, non ti farà scoppiare» (19,7-10). La nostra anglofilia lessicale ha dato a questo comportamento denunciato dal Siracide il nome di “gossip” illudendosi così di nobilitare quello che sembrava un volgare “pettegolezzo”. Ma non è cambiata la realtà.
Così, chiamare “talk show” le risse che invadono tutte le ore della giornata televisiva non ha cambiato la natura di quanto il Siracide definisce “abominevole”: «Chi abbonda nel parlare si renderà abominevole; chi vuole assolutamente imporsi sarà odiato» (20,8). Sembra la descrizione fedele di quanto ci mostra la TV: tre o quattro individui che urlano contemporaneamente cercando di sopraffare gli altri aumentando il volume della propria voce, adeguando al tono prepotente la violenza delle parole fino ad arrivare all’insulto volgare. È gente che ha perso il controllo dei propri pensieri e delle azioni, è sotto l’effetto di una droga che non sarà la polverina bianca o lo spinello, ma che si chiamerà orgoglio, superbia, prepotenza, bullismo, ideologia, addirittura fede religiosa o altri termini fino ad esaurire la lista dei sinonimi. All’autore biblico sono bastate due righette per condannare senza sconti quelle che sono semplicemente intemperanze.
Cosa c’è di più moderno che seguire una dieta alimentare equilibrata, misurando i grammi e la qualità dei vari cibi, seguendo rigidamente le GDA e le tabelle stabilite dai dietologi? Il Siracide affronta anche questo argomento in modo deciso descrivendo, secondo il suo solito, il comportamento che porta alla bulimia. «Non essere ingordo per qualsiasi ghiottoneria, non ti gettare sulle vivande, perché l’abuso dei cibi causa malattie, l’ingordigia provoca coliche. Molti sono morti per ingordigia, chi si controlla vivrà a lungo» (37,29-31). Come si vede parla proprio della temperanza nell’alimentazione e non la fa consistere nel digiuno o nel rifiuto patologico del cibo fino all’anoressia. Il cibo è tra le cose “buone” che il Creatore ha dato all’uomo proclamando che corrisponde perfettamente al suo progetto sul mondo (Genesi 1,31). Proprio per questo possiamo legittimamente affermare al termine della lettura anche di questa pagina: “Parola di Dio” senza paura di profanare la sua santità.
Una temperanza malintesa (“rifiuto” al posto di “controllo”) può diventare esasperata fino al punto di trasformarsi  in fanatismo. In questo caso ci troviamo di fronte ad una degenerazione che non cambia natura anche se viene praticata da uomini e donne che consideriamo santi. Quando si supera il limite della ragione non c’è buona fede che tenga e che trasformi in virtù quella che oggettivamente è una patologia.


 Una religione temperata contro il fanatismo
Su questa linea si muove la riflessione di un altro grande saggio che ci ha lasciato un libro breve ma intenso dove ha concentrato le esperienze fatte nella sua ricerca della felicità. Si tratta del Qoèlet noto per la sua affermazione ripetuta riguardante l’inconsistenza della vita dell’uomo. Mi fermo solo su un particolare che può sembrare fuori posto in uno scritto che non nasconde l’intento religioso del suo autore. Sembra che tra quelle che definisce “vanità” metta anche il rapporto con Dio. Ma attenzione: non si mette in dubbio la necessità di riconoscere la dipendenza dell’uomo dal suo Creatore.
È proprio questo legame che unisce l’uomo a Dio che diventa un problema. Se Dio è quello che si dice, onnipotente, invisibile, inconoscibile come può l’uomo con tutti i suoi limiti azzardarsi a trattarlo con quella dimestichezza e confidenza che non ha nemmeno quando tratta con gli altri uomini? La grandezza di Dio impone all’uomo un atteggiamento prudente nell’individuare il giusto rapporto che deve stabilire con lui. La distanza che li separa è enorme eppure l’uomo dipende totalmente da questa entità misteriosa di cui non può fare a meno.
Qoèlet sente in modo drammatico il conflitto tra la ragione e il bisogno di un appoggio solido che gli garantisca una vita felice. L’insegnamento tradizionale aveva indicato in Dio il riferimento sicuro e aveva codificato i comportamenti dell’uomo per ottenere la protezione divina. Preghiere, riti suggestivi, offerte di sacrifici, promesse di dare a Dio qualcosa in cambio della sua benevolenza. Era stata fissata una specie di tabella che elencava le prestazioni date da Dio con il prezzo relativo. Il Qoèlet non è convinto che sia proprio questa la volontà di quel Dio che si vuole onorare imponendogli i nostri gusti senza poter sapere se le nostre preferenze siano anche le sue.
«Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche» (Qoèlet 5,1b). È questa la motivazione oggettiva, razionale che dovrebbe impedire ogni fanatismo religioso che spinge l’imprudente a diventare più religioso di Dio stesso. Geremia esprime la stessa convinzione affermando che certe espressioni della fede di Israele non corrispondevano alla volontà di quel Dio che si voleva onorare (Geremia7,22) e che alcune forme di culto aberranti non erano mai nemmeno passate per la mente di Dio (7,31). Qoèlet non proibisce di andare al tempio ma esorta a non impegnarsi troppo con Dio recitando preghiere avventate e facendo promesse imprudenti: «Bada ai tuoi passi, quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono di far male» (Qoèlet 4,17). Non usa il termine temperanza ma la descrive nella sua manifestazione più delicata per la quale si sarebbe tentati di dire “De Deo numquam satis!”, nel senso che l’uomo non può mai soddisfare le esigenze di Dio per quante offerte gli possa fare.
Qoèlet invece insegna a non esagerare, soprattutto nei rapporti con Dio. «È meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli» (5,4) è forse la massima espressione di quel controllo di sé che sintetizza le caratteristiche della temperanza. Si potrebbe confondere con la prudenza, ma in realtà la ingloba in sé evitando alla prudenza di trasformarsi nella paura di agire per non sbagliare.
Può sembrare strano che per parlare della temperanza ci siamo rivolti a testi derivanti dalla riflessione sapienziale e non dal Pentateuco o dai profeti. Solo Geremia, che pure si è dichiarato “sedotto da Dio” (Geremia 20,7) e animato da un fuoco interiore che lo spingeva a prendere posizioni nette, sviluppa riflessioni di tipo sapienziale a partire dalla vita concreta con le sue provocazioni alla fede. Eppure noi affermiamo che anche questi testi, all’apparenza dovuti a considerazioni molto “umane”, devono essere considerati “parola di Dio” allo stesso modo di altri testi che affermano esplicitamente la loro derivazione da Dio, come accade per la Torah o per gli interventi dei profeti.
Già nel libro della Sapienza(8,7) si affermava: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita».
Un’altra stranezza, almeno apparente, è che per parlare della temperanza siamo partiti dal suo opposto, cioè da comportamenti di intemperanza nelle sue manifestazioni diverse. Anche nella Bibbia, come si è visto, vengono descritti atteggiamenti negativi, che però sono sempre giudicati in modo severo. Il motivo è molto semplice. L’intemperanza si manifesta generalmente con gesti che attirano l’attenzione e vogliono essere provocanti. La temperanza invece tende per sua natura a passare inosservata e quindi non presenta azioni spettacolari. In altre parole la virtù non si mette in mostra, mentre il vizio cerca di giustificarsi esibendosi.


       Che cosa dice la Bibbia nel Nuovo Testamento

Viene in mente una parola di Gesù ai discepoli, quando li invita a non dare spettacolo delle proprie virtù per essere ammirati dagli uomini e di accontentarsi dell’approvazione del Padre. «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo6,1). Questo presuppone un’attività dei discepoli, possiamo dire un “lavoro” produttivo. Ma questo non deve costituire motivo di vanto personale riconosciuto con titoli onorifici o con posizioni di privilegio. Per il discepolo di Gesù dovrebbe contare solo la disponibilità totale per Dio. Il discepolo autentico compie il suo lavoro senza avanzare pretese, consapevole di non fare altro che il suo dovere. E ditemi se questa non è temperanza, anche se il vangelo non usa questo nome.

Le riflessioni dei primi cristiani hanno sviluppato gli insegnamenti del Maestro, che si era presentato come continuatore della tradizione sapienziale, calandoli nei casi della vita quotidiana. La lettera di Giacomo denuncia senza mezzi termini le guerre indicandone le cause che le scatenano: le passioni incontrollate, il desiderio di possedere, l’invidia. Interessante e di grande attualità l’osservazione che la violenza viene esercitata contro l’uomo ma in realtà è contro Dio (Giacomo4,1-4).

Il paragone con la pazienza dell’agricoltore (Giacomo 5,7-8) è illuminante. Introduce un elemento nuovo nella discussione: la temperanza, che porta il contadino ad adattarsi ai ritmi della natura e ad evitare gli sprechi e così garantisce un buon raccolto. Ma ciò presuppone la conoscenza  e il conseguente rispetto delle leggi della natura viste non come un’imposizione arbitraria ma come espressione di un’intelligenza che mette ordine nelle realtà umane indirizzandole verso un fine.

Riconoscere e accettare questo progetto di vita è la più alta manifestazione della razionalità che dovrebbe guidare l’uomo nelle sue scelte fondamentali. Il linguaggio religioso definisce questo atteggiamento come “discernimento” e lo mette alla base di ogni decisione caratterizzata dalla libertà. Il testo di Deuteronomio30,15-20 (che ci viene proposto dalla liturgia di oggi) espone chiaramente questo principio da cui si fa dipendere una vita realizzata in pienezza. «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male». La scelta iniziale comporta la coerenza di quelle successive e si viene così a formare una catena “virtuosa” che raggiunge il suo vertice nella temperanza.

“Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore che obbedisce a lui solo (e questa è la giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla menzogna (e questa è la prudenza”)” come dice il Catechismo.

La concretezza che caratterizza le osservazioni di Paolo lo porta a riflettere sul comportamento degli atleti che sono capaci di controllare le proprie energie sfruttandole al massimo per ottenere la vittoria nelle competizioni. L’allenamento esige la rinuncia a tutto ciò che può ostacolare lo sviluppo della muscolatura e la capacità di sopportare la fatica e il dolore. Ma questo sforzo non è fine a se stesso poiché è affrontato in vista del raggiungimento di un traguardo ambizioso: «Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1Corinzi 9,25).

Paolo ritorna più volte sul tema della vita del credente ispirata all’insegnamento di Gesù. Questo gli fa capire che l’impegno del cristiano a raggiungere il dominio di sé non è solo il risultato di uno sforzo umano ma è rinforzato da un’energia in più che è comunicata da Dio stesso e che viene indicata come opera dello “spirito”: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Anche in questo caso troviamo una catena di atteggiamenti positivi che rendono la vita felice perché realizzano gli ideali di ognuno che di per sé coincidono con quelli proposti da Dio. Anche in questo caso la “temperanza” non consiste nella rinuncia ma nell’equilibrio tra forze contrastanti, per ottenere qualcosa che si ritiene importante. Penso che valga la pena notare le due estremità della catena che parte dall’amore e si aggancia al dominio di sé cioè, come abbiamo visto, alla temperanza.

E per concludere: «Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo. Chi invece non ha queste cose è cieco e miope, dimentico di essere stato purificato dai suoi antichi peccati. Quindi, fratelli, cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai. Così infatti vi sarà ampiamente aperto l'ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pietro 1,5-11).