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Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

domenica 23 ottobre 2016

ECUMENISMO AD OGNI COSTO

QUANDO LA LOGICA VA IN FERIE

23/08/2016 18:41a tua privacy, le immagini remote di questo messaggio sono state bloccizza immagin
 E                                                       Egregio Direttore, sono rimasto allibito leggendo nell'editoriale di Davide Rondoni pubblicato venerdì 19 agosto la seguente affermazione: "Infatti, per chiunque creda - cristiano o islamico o ebreo - Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze, semmai sono a riguardo dell'io". Sarà perché dopo 40 anni di insegnamento dell'Antico Testamento sono abituato a motivare ogni affermazione, soprattutto se impegnativa, spiegando il significato preciso dei termini usati, ma la frase buttata lì come la cosa più ovvia, mi ha letteralmente sconcertato.
      
L'autore dell'editoriale è così sicuro che i lettori sappiano distinguere tra chi è Dio nella sua natura dalle immagini che le diverse religioni hanno costruito per presentarlo ai loro seguaci? Forse nemmeno l'autore saprebbe spiegare questo piccolo particolare, perché dimostra concretamente di non percepire nemmeno l'esistenza del problema. Del Credo che noi recitiamo l'unico elemento comune alle tre religioni citate è la frase di  inizio: Credo in Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra. E qui ci fermiamo, dopo la prima riga, che pure qualche differenza la propone, ma sono sottigliezze. Su quello che segue, cioè credo in Cristo figlio di Dio ecc. ecc. credo nello Spirito Santo, credo nella Chiesa ecc. ecc. posso tirare una croce e ignorarlo tranquillamente. Solo a queste condizioni posso affermare che abbiamo una fede comune. Io personalmente non la condivido, anche se oggi va di moda, come lo dimostra l'articolo di un giornale che si presenta come l'espressione del cattolicesimo. So benissimo che da un articolo di giornale non si può pretendere un trattato di esegesi o di teologia, ma penso che si debba pretendere il rispetto della verità e dei lettori. (…) 

… se questo è l’Avvenire della Chiesa…
Ho trascritto l’inizio del commento che avevo inviato al direttore del quotidiano della CEI per manifestare le mie perplessità sull’affermazione che oggi va tanto di moda negli ambienti di avanguardia che cercano dei punti di contatto tra le diverse fedi religiose. L’intento è lodevole ed è auspicabile che si riesca a trovarne qualcuno per mettere fine a secoli di contrapposizioni sfociate a volte in massacri assurdi di cui tutti devono sentirsi responsabili. Ma è doveroso chiedersi se la strada che si vuole percorrere insieme per raggiungere l’auspicata unità delle fedi sia quella giusta.
Ammiro la costanza e il coraggio di singoli e organizzazioni cattoliche che continuano a proporre incontri ecumenici e interreligiosi ad ogni livello. Sono stato anch’io, negli anni passati, parte attiva in questo movimento e l’esperienza fatta sul campo mi ha convinto che i risultati sperati rimangono ancora un sogno. È già un passo avanti il fatto di trovarsi tutti attorno ad un tavolo a parlare su argomenti di comune interesse senza insultarsi o anche solo senza ignorarsi a vicenda. Ma non illudiamoci, quando si arriva al dunque, cioè al modo in cui ognuno esprime la propria fede, la conversazione (il vero dialogo non è mai esistito) si blocca, qualcuno si alza, saluta educatamente magari con un sorriso, e poi se ne va.
Oggi qualcuno pensa di aver scoperto l’uovo di Colombo, di aver trovato l’algoritmo capace di risolvere l’eterno problema. Partendo dalla convinzione che Dio è uno solo in se stesso sono state individuate tre religioni che si riconoscono in questa affermazione mettendola alla base della loro stessa esistenza. In ordine di tempo –  ebraismo, cristianesimo, islamismo – sono le tre religioni monoteiste. Se tutte e tre riconoscono l’unico Dio, allora le differenze consistono solo nel modo di rappresentarlo e non possono riguardare la realtà di Dio in se stesso. Dunque, trattandosi solo di una questione di nomi, praticamente tutti diciamo la stessa cosa anche se la indichiamo con etichette diverse. E allora, perché scannarci per imporre agli altri la rappresentazione di Dio che ci siamo costruiti “a nostra immagine e somiglianza?”.
La proposta è accattivante e suggestiva oltre a presentarsi come assolutamente razionale. C’è però un piccolo particolare: ognuno dei rappresentanti delle tre religioni monoteistiche è convinto che l’immagine di Dio descritta nella propria fede corrisponde esattamente alla realtà. Le altre due sono inaccettabili. È questo l’approdo a cui si è ancorato per ora l’incontro interreligioso. Meglio di niente – si dirà – se almeno servisse ad aprire gli occhi sulla realtà difficile che non si risolve applicandole sopra una formuletta semplificatrice.

Per il passaporto ci vogliono foto uguali
Ecco perché ho reagito leggendo quel “semmai” che minimizzava il problema riducendolo ad una semplice questione terminologica del tutto soggettiva. Non si può far finta che le tre rappresentazioni di Dio siano fondamentalmente uguali tra di loro solo perché si riferiscono allo stesso personaggio. Le differenze sono sostanziali e – stando alla comprensione attuale delle rispettive teologie – sono irriducibili. Basti pensare al Dio in tre persone, che caratterizza la fede cristiana, rifiutato dall’ebraismo e negato decisamente dall’islam. Poco importa se la descrizione che ne dà il Corano non ha niente in comune con quanto afferma la teologia cristiana, dato che le affermazioni coraniche vanno comprese alla lettera che in questo caso è chiarissima.
Su questo punto fondamentale si potrebbe cercare un confronto con l’ebraismo, mettendo da parte i rispettivi pregiudizi. È quanto sta avvenendo, anche se ancora timidamente, in ambienti di avanguardia avanzata, ma la strada per arrivare ad una comprensione comune dei testi biblici è ancora lunga.
Diverso è il confronto tra il Dio dell’islam e quello dell’ebraismo. A prima vista si può avere l’impressione che le due presentazioni coincidano. In realtà questa coincidenza è all’origine della spaccatura drammatica tra i due popoli, fatta risalire, dalla ricostruzione che ne fa il Corano, alla lotta tra i due figli di Abramo, considerati nella tradizione biblica i capostipiti del popolo ebraico (Isacco) e di quello arabo (Ismaele). Chi conosce le interpretazioni date alle vicende dei fratelli maggiori privati dei loro diritti di primogenitura a vantaggio dei fratelli minori può intuire con quale stato d’animo un ebreo e un islamico si possono rivolgere allo stesso Dio. Accenno solo alle reazioni negative di certi ambienti ebraici alla definizione di “fratelli maggiori” data da papa Wojtila. Quante volte ho dovuto spiegare a gruppi di cattolici, che ripetevano come segno di rispetto la stessa frase, il sottofondo emotivo che faceva sentire ad un ebreo quelle parole come una grave offesa. 

Almeno Abramo può essere il padre di tutti?
Un altro luogo comune ripetuto con compiacimento in certi ambienti alla ricerca del dialogo ad ogni costo, è la definizione “le tre religioni abramitiche”. Anche in questo caso non è tutto così semplice come si vorrebbe far credere. Stando al racconto biblico, ebrei e arabi sono discendenti dei due figli di Abramo avuti da due donne diverse, Sara la moglie legittima madre di Isacco capostipite degli ebrei e Agar la schiava egiziana madre di Ismaele considerato il capostipite delle popolazioni arabe. Nelle vene dei due popoli scorrerebbe dunque lo stesso sangue di Abramo, anche se contaminato fin dall’origine.
Il legame con Abramo, rivendicato da Paolo per i cristiani, è di tutt’altra natura, fondato unicamente sulla fede del grande patriarca. I cristiani sono considerati suoi figli solo se condividono la certezza di Abramo che Dio avrebbe mantenuto le sue promesse. Si tratta di un legame che viene addirittura contrapposto a quello determinato dal sangue.
“Religioni abramitiche”? La spiegazione che ho cercato di abbozzare è largamente lacunosa e certamente non risulta chiara a chi non conosce il testo biblico con tutte le risonanze emotive che suscita in un ebreo o in un arabo. Non nego la validità della definizione di religioni abramitiche, purché venga accompagnata o meglio, preceduta da un’ambientazione culturale e religiosa adeguata. Con queste premesse è per lo meno rischioso mettere in circolazione come dati largamente acquisiti e condivisi, delle affermazioni molto complesse che hanno come risultato di aumentare la confusione già largamente diffusa non solo tra quelli che una volta erano definiti brutalmente “rudes”.
Ecco perché mi sono sentito in dovere di chiedere al direttore di Avvenire una chiarificazione su quella frase esplosiva buttata lì con indifferenza tra i piedi della gente. Gente che legge il quotidiano cattolico in numero crescente in controtendenza agli altri quotidiani italiani. È motivo di gioia per chi crede nel valore della stampa, ma è anche occasione per riflettere sulla responsabilità di fronte ai lettori e soprattutto verso la verità.
 
Una lettera cestinata
Mi aspettavo un cenno di comprensione verso il problema che avevo evidenziato, anche se avevo superato i fatidici “1500 caratteri spazi inclusi”, vista l’importanza dell’argomento. Ma quando spedivo il messaggio erano esattamente le 18:41 del 23/08/2016 e non potevo pensare che poche ore dopo un terribile terremoto avrebbe sconvolto la vita di tante persone e monopolizzato le informazioni e i commenti di tutti i mezzi di comunicazione.
Non potevo far altro che rispettare anch’io la priorità delle notizie, ma senza lasciare sepolto sotto le macerie il problema che mi stava a cuore. E sono contento anche perché il tragico evento ha fornito al direttore di Avvenire un alibi validissimo che mi impedisce di metterlo sul banco degli imputati. Spero che, ritornata una certa normalità nelle informazioni si possa dedicare un po’ di attenzione a temi di teologia pratica. Non auspico la censura su affermazioni che non condivido, ci mancherebbe altro! Chiedo solo che ad un punto di vista se ne affianchino anche altri perché i lettori possano rendersi conto per lo meno della complessità di certi problemi.
Con questo, caro Direttore, non le chiedo di pubblicare le mie considerazioni. Riconosco di essere un biblista ruspante che non ambisce i titoloni né usa il linguaggio forbito degli ambienti accademici. Ci sono sul mercato molti colleghi che condividono le mie idee e sono anche capaci di esporle in modo “teologicamente corretto”. Sono sicuro che anche lei ne conosce qualcuno e non farà fatica ad ottenere la loro collaborazione. Quello che conta, sono le idee non tanto chi le espone, anche se un nome famoso può facilitare la loro diffusione.