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Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

lunedì 7 dicembre 2015

UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (3)


UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (3)

Misericordia e Shoah?  Ani maamin…

Nel Salmo 136, come abbiamo visto, la misericordia di Dio deve essere considerata “da un certo punto di vista”, nel caso specifico, dal punto di vista di Israele. Per gli Egiziani, gli Amorrei, gli abitanti di Basan la cosa diventa problematica perché si tratta di nemici del popolo che Dio vuole liberare e che si oppongono con la violenza a questo progetto. I ricordi di quei fatti sottolineano con dovizia di particolari a volte contrastanti, l’ostinazione del faraone che rifiuta di acconsentire alle richieste di Mosè. Nel loro insieme i racconti forniscono una giustificazione plausibile all’uso della violenza da parte di Dio.

Non si trovava sempre un angelo paziente e buono che addormentasse i carcerieri per liberare senza violenza i suoi protetti, come accadrà in tempi successivi a Pietro che non voleva credere ai suoi occhi tanto era impensabile una uscita dal carcere così soft (Atti 12,6-11).

Ma con la Shoah è il popolo protetto da Dio ad essere colpito dalla piaga dello sterminio sistematico condotto con metodi scientifici. Israele aveva già sperimentato più volte nella sua storia la durezza dei castighi mandati dal cielo. I profeti erano riusciti a trovare argomenti che avevano aiutato i loro contemporanei a metabolizzare le tragedie e a trovare motivi di speranza in un futuro migliore. Solo una fede a tutta prova aveva saputo coniugare la misericordia divina con una severità confinante con la crudeltà.

E a metà dell’ultimo secolo di un millennio che sentivano estraneo, gli Ebrei hanno risposto al pazzo criminale che voleva eliminarli per sempre dalla faccia della terra, con la fede di Maimonide cantata sommessamente varcando la soglia di quei cancelli che promettevano una libertà raggiunta solo uscendo come fumo dai camini dei forni crematori.

Ani maamin… Io credo, io ripeto il mio Amen di fronte al mistero incomprensibile di un Dio che mi ama anche se ha permesso che fossi ridotto come “un verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo” (Salmo 22,7).

Le stesse parole erano state dette da un altro Ebreo che prima di morire inchiodato su una croce, si era sentito abbandonato proprio da quel Dio che aveva insegnato a considerare come un padre.

Ani maamin… Io credo con fede completa che il Creatore, benedetto sia il Suo Nome, è il Creatore e la Guida di ogni essere creato, e che Egli soltanto ha fatto, fa e farà ogni cosa.

Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… è Uno e Unico, che non esiste altra Unità come Lui, e che Egli solo è il nostro Dio, lo è stato e lo sarà.

Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… ricompensa coloro che osservano i Suoi precetti e punisce coloro che li trasgrediscono.

Ani maamin…Io credo con fede completa nell'avvento del Messia e, sebbene possa tardare, aspetterò ogni giorno la sua venuta.

Ani maamin…Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte nel tempo in cui lo vorrà il Creatore, benedetto sia il Suo Nome ed in eterno esaltato il Suo ricordo.

Tra i mille volti con cui si presenta la misericordia del Dio della Bibbia questo è il più incomprensibile. Vorremmo cancellarlo da quelle pagine, vorremmo eliminarlo dalla nostra vita. Lo vorrebbe anche Dio, come aveva capito Geremia quando scriveva “Come vorrei considerarti tra i miei figli… Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (3,19).

È questa l’unica possibilità che ci è offerta per evitare il ripetersi delle tragedie del passato che continuano ancora a colpire l’umanità. Non basta ripetere stancamente le parole di Gesù “Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà” nella forma impersonale con cui ci sono state tramandate, aspettando che qualcuno imprecisato costruisca il regno e faccia la volontà di Dio. Bisogna arrivare a coniugare quei verbi alla prima persona singolare e plurale “Voglio/vogliamo costruire il tuo regno. Voglio/vogliamo fare la tua volontà”. La Bibbia ci dice come fare, ci presenta un progetto e ci dice che abbiamo a disposizione tutti i materiali necessari per realizzarlo, ci promette anche l’assistenza continua del progettista. Ma tocca a noi organizzare i lavori ed eseguirli. E questo non è facile e richiede impegno e fatica. Sarebbe meglio che intervenisse Dio, come ha già fatto quando ci ha liberati dall’Egitto, stando a quanto ci hanno raccontato i nostri padri, siamo tentati di dire.

Così pensavano anche gli esuli ebrei nei momenti difficili della ricostruzione dopo la fine dell’esilio a Babilonia e invocavano il Signore con parole accorate: “Rinnova i segni e compi altri prodigi, glorifica la tua mano e il tuo braccio destro” (Siracide 36,5). È lo stesso atteggiamento che sembra bloccare anche i cristiani nella costruzione della Chiesa. In realtà ne abbiamo costruite molte, forse anche troppe, tant’è vero che ne abbiamo trasformato un certo numero in magazzini, sale di spettacolo, aule di tribunale, palestre e discoteche o le abbiamo abbandonate all’incuria. Continuiamo a erigere cattedrali sfarzose in mezzo a baraccopoli abitate da miserabili, conserviamo nei musei diocesani i “tesori” della chiesa ereditati dai secoli passati, mostriamo con orgoglio le opere d’arte commissionate da mecenati devoti, celebriamo liturgie solenni sfoggiando costumi impossibili ereditati da epoche e culture lontane da noi, organizziamo incontri con milioni di partecipanti che si distinguono dagli omologhi laici solo per l’assenza di ballerine svestite.

Nelle nostre cerimonie ci siamo liberati delle parrucche incipriate lasciandole ai lord del Parlamento di Londra, ma abbiamo conservato fino a poco tempo fa la coda ai porporati (… e che dolore quando l’hanno tagliata! commentava allora un alto prelato). Abbiamo eliminato i flabelli ma non le divise per distinguere i vari “gradi” della gerarchia con colori e fogge diversi. Si fosse almeno sentita la necessità di suggerire durante il rito della vestizione delle “insegne” la recita delle belle parole attribuite alla regina Ester: “Tu sai che mi trovo nella necessità, che detesto l’emblema della mia fastosa posizione che cinge il mio capo nei giorni in cui devo fare comparsa; lo detesto come un panno immondo” (Ester 4,17v). Certamente, il contesto è diverso e si è preferito pensare alla descrizione entusiastica fatta dal Siracide quando presenta il sommo sacerdote Simone paragonato alle cose più belle e preziose “quando indossava i paramenti solenni, quando si rivestiva con gli ornamenti più belli, salendo i gradini del santo altare dei sacrifici, riempiva di gloria l’intero santuario” (Siracide 50,11).

Eppure Gesù era stato molto chiaro sul valore di segni analoghi e di titoli onorifici in voga tra i notabili del suo tempo quando diceva: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbi’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Matteo 23,5-8; Marco12,38-40; Luca 20,45,47).

Abbiamo conservato molte di queste strutture laiche e antiquate fino a sacralizzare il colore delle scarpe del papa. Ma non siamo riusciti a costruire la vera Chiesa pensata da Gesù secondo altre categorie e ci siamo persi dietro a dispute per il potere scopiazzando o inventando titoli onorifici, ci siamo divisi discutendo sul sesso degli angeli, siamo riusciti a frantumare quella che doveva essere l’unico Corpo di Cristo.

Di fronte a questo spettacolo, che potrà anche sembrare descritto con toni caricaturali, crediamo che nonostante tutto Dio ci viene incontro con la sua misericordia ed è pronto ad accoglierci. A patto che la smettiamo di correre dietro ai fantasmi sbandierati da una società fallimentare che però continua a lanciare i suoi richiami ingannevoli. Ma il Dio misericordioso presentatoci dalla Bibbia ci dice anche che tocca a noi fare il primo passo. Lui ci verrà incontro, non ci chiederà nemmeno di fare una pubblica abiura. L’unica condizione è che cambiamo davvero il nostro modo di vivere e che facciamo nostro il suo modo di vedere il mondo. Non ci chiede poco, è vero, ma è l’unico modo per essere felici.

La Bolla di indizione dell’anno giubilare

Misericordiae vultus è il titolo della Bolla e il volto è quello di Gesù. Effettivamente “quel volto” sintetizza tutte le sfumature che abbiamo rilevato leggendo i testi biblici e anche quelle che non sono emerse in una ricerca rapida. Il nostro sforzo dovrebbe mirare a scoprire attraverso le espressioni del volto del Maestro le sue reazioni ai comportamenti degli apostoli, delle folle, dei farisei, dei sadducei, dell’adultera, della vedova che accompagna il feretro del figlio. Dovremmo spiegare le sue lacrime di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro, il suo sorriso quando abbraccia i bambini, la sua indignazione quando denuncia l’arrivismo meschino dei due figli di Zebedeo, l’espressione disperata quando si sente abbandonato da Dio.

In tutte queste situazioni Gesù manifesta la misericordia del Padre che non si esaurisce nelle raffigurazioni statiche dei singoli artisti, ma che dovrebbe essere ricostruita unendo le mille immagini che la rappresentano. È una ricerca troppo impegnativa per essere presentata in un documento ufficiale o anche solo in un articolo necessariamente limitato. Tuttavia è possibile offrire delle tracce per approfondire personalmente la ricchezza di insegnamenti presenti nelle pagine bibliche.

I testi della Bibbia che ho cercato di leggere nel loro contesto letterario sono citati anche nella Bolla di indizione dell’anno giubilare, insieme a tanti altri dello stesso tenore. Il documento del papa sembra sensibile alle difficoltà di mettere insieme le due facce della medaglia anche se continua a sottolineare gli aspetti gradevoli e incoraggianti legati alla qualità di Dio. In questo la Bolla segue fedelmente la tradizione, rappresentata dall’Enciclica Dives in misericordia non per niente citata diverse volte e proprio in passi che aprono la strada a capire perché Dio deve essere misericordioso. È il comportamento negativo dell’uomo che dà a Dio l’occasione di manifestare il lato positivo. Potremmo parafrasare un noto testo della liturgia: “O felix culpa” dell’umanità che offre a Dio l’occasione di farsi conoscere per quello che è: un Padre che ama tutti i suoi figli anche se in modo a volte incomprensibile.

Senza i “miseri” non esiste misericordia. L’unico ostacolo alla misericordia è il non riconoscere di averne bisogno. Per usare un termine “tecnico” è la “hybris” dei testi greci che possiamo interpretare come “arroganza violenta, tracotanza, autosufficienza insolente, disprezzo degli altri (compreso Dio), godimento sadico nel far soffrire chi è ritenuto nemico” che si oppone alla misericordia. Il riconoscimento della propria “miseria” (che non ha bisogno di grandi segni esteriori, flagellazioni, processioni di incappucciati, digiuni ostentati alla TV o sui giornali…) è la condizione per un incontro con Dio nella verità. Come abbiamo visto non è soltanto l’esperienza a dirlo ma lo afferma la Bibbia stessa in testi espliciti e nel contesto generale. Queste osservazioni dovrebbero permettere di affrontare il problema del male con una certa serenità che non va confusa con l’indifferenza né con l’approvazione o la connivenza.

In questa prospettiva mi pare che la Bolla possa essere divisa in due parti. La prima (nn. 1-9) presenta un repertorio di testi biblici sul tema della misericordia, commentati secondo i criteri interpretativi tradizionali. La seconda parte (nn. 10-25) tenta un approccio alle difficoltà che sorgono da una lettura che ho chiamato “tematica” o “selettiva” in quanto mette in luce soltanto un aspetto dell’insegnamento dato dalla Bibbia. La svolta è evidente soprattutto nel n. 10 dove compare il tema della “giustizia” che sembra contrapporsi alla misericordia. Il tema è ripreso ampiamente nei nn. 19-21 fino a dichiarare in modo netto: “ Chi sbaglia dovrà scontare la pena”, con la precisazione doverosa “che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono”.

* * *

Per concludere un discorso che meriterebbe uno sviluppo molto più ampio, ci tengo a chiarire che non intendo affatto dare dei suggerimenti al papa. C’è già chi lo ha fatto… con risultati non proprio esaltanti. Il mio desiderio era solo richiamare l’attenzione su di un modo di accostarsi alla Bibbia che può portare addirittura a considerare il testo sacro immorale e blasfemo se non è letto nella prospettiva che ha guidato chi ha raccolto e conservato testi tanto eterogenei ma convergenti su punti fondamentali per la nostra fede. L’affermazione che Dio è misericordioso è uno di  questi. Se non si ha questa avvertenza avrebbe ragione Darwin che di fronte alla figlioletta Annie morta in tenera età avrebbe dichiarato: “No, un Dio onnipotente non può fare questo” (Corriere della sera 21 settembre 2015, citato da Anna Meldolesi).

Penso che la strada giusta per affrontare non solo il tema proposto per l’anno giubilare ma ogni lettura seria della Bibbia, sia accettarla per quello che è nella sua totalità di scritti in ebraico e in greco. Infatti certi principi di fede comuni con l’ebraismo trovano la loro giustificazione completa nei testi che conosciamo solo nella lingua greca. Ad esempio, la fede di Rambam Maimonide nella risurrezione, che gli Ebrei cantavano avviandosi alle camere a gas “Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte nel tempo in cui lo vorrà il Creatore”, non risulta essere insegnata in modo esplicito nei testi ebraici, tant’è vero che al tempo di Gesù i Sadducei rifiutavano questa dottrina, affermata con certezza nei libri dei Maccabei (2 Maccabei7,9.14.23.29) e nel Nuovo Testamento.

Speriamo che l’impegno di papa Francesco nel liberare la chiesa di Roma dalle incrostazioni accumulate nei secoli precedenti riesca anche a restituire alla Bibbia il posto che le compete. Ciò non si ottiene portando la Bibbia in processione o collocandola in evidenza sul leggio. Sono soltanto dei simboli e in quanto tali non possono stare da soli. L’etimologia della parola dice che “simbolo” significa “mettere insieme” (syn + ballo) cioè il posto fisico centrale riservato al libro deve diventare il posto centrale che l’insegnamento espresso dal libro deve occupare nella vita.

Come abbiamo visto nei pochi esempi presentati, per ottenere questo risultato si deve partire dalla convinzione che la Bibbia è fondamentale per conoscere la nostra fede; da questo nasce il desiderio di conoscere che cosa dice veramente; segue l’impegno a leggerla e rileggerla senza la preoccupazione di arrivare alla fine del brano per vedere cosa viene dopo; cercare l’aiuto di chi ha già fatto il percorso seriamente; accettare le sfide che l’insegnamento ci dà e impegnarsi a trasformarlo in comportamenti concreti e in scelte di vita. Sembra complicato, ma in realtà lo è soltanto quando non si è convinti del punto di partenza. Le difficoltà successive dipenderanno poi soltanto (!!!) dalla fatica richiesta per essere coerenti.

Ritornando al tema dell’anno giubilare penso di poter sintetizzare così quanto abbiamo scoperto: per la Bibbia la misericordia è un attributo della natura di Dio che si manifesta in tanti modi diversi; Dio è misericordioso sempre anche quando l’uomo non se ne rende conto, anche quando lo rifiuta; l’uomo è invitato ad imitare Dio costruendo una società basata su rapporti di misericordia. Se l’anno giubilare non porta questi risultati non servirà a niente, sarà soltanto un flop in più che si aggiunge ai tanti di cui abbiamo disseminato la nostra storia.

Però resterà immutata la misericordia di Dio. Deo gratias!

 

UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (2)


UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI  (2)

Il Salmo 136

Dove trionfa la misericordia è nel Salmo 136 che proclama dopo ogni intervento di Dio per ventisei volte “eterna è la sua misericordia”. È veramente la celebrazione trionfale di questa grande qualità che contraddistingue il Dio di Israele. Ma facciamo un piccolo sforzo, mettiamoci nei panni degli egiziani che sono oggetto dell’intervento di Dio dal v. 10 al v. 15. Con che animo possiamo ripetere che Dio è misericordioso quando si dice che “Percosse l‘Egitto nei suoi primogeniti… travolse il Faraone e il suo esercito nel Mar Rosso”. Se ci immedesimiamo con i sudditi di “Seon re degli Amorrei” o con quelli di “Og re di Basan” come facciamo a proclamare la misericordia di Dio quando si dice che li ha uccisi senza pietà? Evidentemente la “misericordia” in questione non corrisponde all’idea che noi ce ne siamo fatta ma va intesa in altro modo. La struttura letteraria del salmo ci aiuta a comprenderne il significato.

La ripetizione della stessa frase come un ritornello fa pensare a quanto facciamo anche noi nella liturgia eucaristica con il Salmo responsoriale. Un lettore proclama un versetto e tutti i presenti rispondono sempre allo stesso modo. Abbiamo così una specie di dialogo corale nel quale un solista o un gruppo ristretto di cantori racconta una storia o espone un pensiero articolato in più punti e i presenti partecipano ripetendo una frase che sintetizza il pensiero dominante. Si tratta quindi di una sottolineatura che dimostra l’interesse dell’assemblea per qualcosa che ognuno dei presenti sente rivolta a sé.

Nel Salmo 136 si racconta una storia particolare riguardante un gruppo di persone che ricordano un momento importante della loro vita. È un’esperienza rivissuta e narrata “dal loro punto di vista” che li porta ad interpretare i fatti in funzione dei risultati ottenuti. Nel caso specifico il protagonista è il popolo ebraico e gli altri attori, come in ogni rappresentazione che si rispetti, ricoprono ruoli diversi soprattutto quello di antagonisti.

È interessante notare che questa vicenda particolare è inserita in una cornice universale che si apre con le qualità di Dio in se stesso e la creazione del mondo (vv. 1-9) per chiudersi con il riferimento “ad ogni vivente” e al “Dio del cielo” (vv. 25-26).

Non so se sono riuscito a mettere in guardia dal cadere nella trappola di una misericordia dichiarata universale perché ripetuta decine di volte. La verità non nasce dal numero dei consensi. Il salmo in questione, per come è costruito afferma che Dio è stato ed è misericordioso, ma “verso Israele” (vv. 11.21-24). Dire che lo sia stato anche verso l’Egitto, verso Seon e verso Og non è così semplice come vorremmo e richiede un “supplemento di indagine”.

Questa osservazione ci porta a riflettere sui racconti dei fatti ricordati nel salmo e a chiederci se non siano stati anch’essi redatti “da un certo punto di vista”. Il che non vuol dire che non corrispondano alla realtà ma che non la presentano tutta, cosa del resto umanamente impossibile. La stessa varietà dei racconti di quanto avvenuto in Egitto con la conclusione ricordata nel salmo, dimostra che sono basati su ricordi differenti raccolti senza le nostre preoccupazioni che definiamo “scientifiche” perché fondate su documentazioni scritte. Pretendere l’uso dei nostri metodi di ricerca da parte di uomini vissuti migliaia di anni fa in condizioni tanto diverse dalle nostre è veramente antiscientifico e antistorico. E meraviglia che si continui a dare giudizi negativi sulla Bibbia accusando chi l’ha scritta di falsità.

Il discorso ci porta ancora una volta lontano dal nostro tema specifico e dimostra l’intreccio profondo tra aspetti diversi reso ancor più complicato dai pregiudizi che abbiamo, costruiti anche con la buona intenzione di rendere più facile la lettura della Bibbia.

 La parabola del Padre misericordioso

In ambito cristiano il testo di Luca 15,11-32 è il punto di riferimento scontato per presentare la misericordia di Dio. In passato la parabola era indicata con un titolo che metteva in primo piano il “figlio prodigo” cioè dissipatore dei beni di famiglia; da un po’ di tempo si preferisce focalizzare l’attenzione sulla figura del padre. Il cambiamento evidenzia lo spostamento dell’interesse da parte dell’uomo moderno verso un particolare di cui si sente la mancanza nella vita quotidiana sempre più omologata con quella del figlio dissoluto. Però ho l’impressione che in fondo si cerchi una giustificazione delle proprie scelte, mascherata da comprensione tollerante più che la misericordia autentica come è presentata nella parabola. Questa ambiguità è favorita da una lettura buonista che è del tutto estranea all’insegnamento di Gesù tutt’altro che accomodante.

Non mi fermo sul racconto, troppo noto, per passare subito a qualche considerazione. Il comportamento del padre di fronte alla richiesta del figlio è semplicemente sconcertante, incomprensibile, contrario al ritratto di padre presentato dalla Bibbia stessa come modello per comprendere l’agire di Dio nei confronti del suo popolo. Basta leggere come si comporta un padre ideale secondo il libro dei Proverbi (3,11-12) e secondo l’autore della Lettera agli Ebrei che trova in quel testo la spiegazione delle dure prove che devono affrontare i cristiani (Ebrei12,1-13), fino ad arrivare a dire che la tolleranza verso le scelte sbagliate dei figli significa considerarli illegittimi, cioè degli estranei.

Il padre della parabola si comporta proprio così. Alla richiesta del figlio non reagisce, non cerca nemmeno di farlo riflettere ma semplicemente si adegua, accetta senza batter ciglio una scelta sbagliata. Alla luce di quanto si dirà in seguito, dobbiamo riconoscere che anche questo atteggiamento del padre è dovuto alla sua misericordia che però si manifesta in un modo che potrebbe essere interpretato come indifferenza o addirittura come connivenza.

Un altro particolare del racconto merita attenzione. Il figlio decide di ritornare non dal padre ma “in casa del padre”, cioè non è motivato dall’amore ma dalla necessità, dalla fame (vv. 10-11) e rinuncia ai privilegi spettanti ai figli per essere trattato come un estraneo. Sorprende il fatto che anche l’altro figlio è rimasto in casa come un estraneo (“ti servo da tanti anni… non ho mai trasgredito un tuo comando”) e accusa il padre di non avergli mai dato “un capretto per far festa con gli amici” cioè con degli estranei. Figli senza amore, mossi solo da interessi materiali, che si ignorano, non si sopportano, si accusano, si rinfacciano preferenze attribuite ad un padre insensibile: e invece è l’unico che agisce per amore.

Si direbbe una  famiglia mal combinata, fallimentare dove l’unico a fare bella figura è il padre che nonostante l’atteggiamento dei figli continua ad amarli accontentandosi di sentirli vicini. Mi pare che la parabola possa essere vista come la foto fedele della storia di tutti gli uomini che Dio continua a considerare suoi figli e ad amarli nonostante tutti i loro tradimenti.

I commentatori, sempre per evidenziare la misericordia del padre, sottolineano che quando vede il figlio ancora lontano gli corre incontro, non aspetta le sue scuse ma subito manifesta la gioia per il ritorno e organizza la festa di accoglienza. Ma nessuno si chiede perché il padre non si è mosso prima, non è andato a cercarlo nei bordelli, nelle porcilaie, ultimo rifugio del figlio snaturato. Eppure queste notizie erano ben note in famiglia se il fratello maggiore le porta come giustificazione del suo rifiuto di partecipare alla festa. No, il padre aspetta. Deve essere il figlio a fare il primo passo, a decidere di cambiare vita dopo aver sperimentato il fallimento delle sue illusioni e aver toccato il fondo del degrado fisico e morale.

Avrà un significato tutto questo nella logica della parabola? Anche perché è la terza delle parabole sul tema della misericordia e le prime due sembrano dare particolare importanza proprio alla ricerca affannosa di quanto si era perduto, sia una pecora o una moneta per la quale si mette a soqquadro tutta la casa.

Le tre parabole sono simili ma con differenze da non trascurare. Nelle prime due sono il pastore e la donna che perdono qualcosa, cioè si presenta un dato di fatto, una situazione oggettiva che richiede l’intervento dell’interessato per ricuperare quello che ritiene importante. Non si evidenzia una scelta consapevole da parte della pecora né tanto meno lo si fa nei confronti della moneta. Si dice solo che si sono perdute.

 Nella terza la situazione di partenza è ben diversa: è il figlio che volontariamente si allontana da casa. Il disinteresse del padre è solo apparente perché in realtà è dettato, paradossalmente dall’amore che si manifesta nel rispetto totale della libertà del figlio e nel riconoscimento della sua dignità. Se il figlio ha deciso liberamente di abbandonare la casa dev’essere lui a decidere di ritornarvi. Il padre sembra impotente, tutta la responsabilità ricade sulla scelta del figlio.

Ci troviamo di fronte ad un messaggio inquietante che non concede sconti o scappatoie. L’uomo è arbitro del proprio destino, deve decidere continuamente tra “la vita e la morte, la benedizione e la maledizione” (Deuteronomio 30,19). Ma deve anche sapere a che cosa va incontro. E qui interviene la misericordia di Dio che informa, spiega, dà suggerimenti, propone e impone i comportamenti che portano l’uomo a scegliere la vita e la benedizione. Tutta la Bibbia nel suo insieme può essere considerata il grande “Manuale di istruzioni” per il corretto funzionamento dell’uomo, consegnato ad un popolo perché lo faccia conoscere a tutti.

 Misericordia e coerenza

Tra gli attributi di Dio descritti dalla Bibbia ce n’è uno che non viene messo in risalto come meriterebbe sia dagli studiosi che dai predicatori. Lo stesso Catechismo non lo ricorda se non in modo indiretto sotto l’etichetta della “fedeltà”, termine che esprime lo stesso concetto di “coerenza” ma che suona meglio in un contesto religioso. Dire che Dio “è fedele” viene associato automaticamente alle promesse di bene, di perdono, di grazia, tutte cose belle, altamente positive e incoraggianti. Affermare che Dio è coerente con se stesso è un’espressione sentita come troppo laica e difatti non ricorre mai nemmeno nei testi biblici.

Ma se manca il termine linguistico non manca la descrizione di un Dio “fedele alla sua parola” anche quando si parla di avvenimenti tragici preannunciati dai profeti come castighi per i peccati del popolo. Il testo di Geremia 2,13 non usa il termine “coerente” per affermare che Dio rimane sempre uguale a se stesso ma ricorre ad un’immagine molto più efficace della parola: la sorgente d’acqua. Per sua natura è fonte di vita, è a disposizione di chiunque, sempre uguale (coerente). Non si disperde in mille rigagnoli alla ricerca degli assetati. Sono essi che devono avvicinarsi alla sorgente se non vogliono morire di sete. L’immagine apre la strada a tante riflessioni sulla necessità di scelte responsabili e illuminate da parte dell’uomo, sulla coerenza nell’accettarne le conseguenze, sull’illusione dell’autosufficienza, sulla fragilità delle costruzioni umane che escludono Dio. E si potrebbe continuare.

Nel testo di Matteo 18,21-35 non si usa il termine fedeltà né tanto meno coerenza. Piuttosto si parla in modo esplicito di “debiti condonati”, di pietà e di perdono sullo sfondo di una giustizia fiscale violata ma superata per la bontà del padrone. Emerge anche il tema della reciprocità. Il tutto è presentato sotto l’etichetta della misericordia che si manifesta attraverso il perdono. Come si vede anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un intreccio di temi che formano un disegno ben preciso che deve essere visto nell’insieme. Partendo da questa premessa di metodo, il comportamento del padrone rivela certamente la sua misericordia nei confronti del primo servo quando gli condona il debito, ma afferma anche la sua severità nel giudicare e punire secondo giustizia fiscale lo stesso servo già perdonato.

Il testo non si accontenta di narrare l’accaduto ma aggiunge anche un particolare emotivo dicendo che il padrone condanna il colpevole perché era “sdegnato” (v. 34). In questo caso la punizione è frutto di un intervento voluto dal padrone e la sentenza è motivata, a differenza di quanto abbiamo rilevato nell’immagine della sorgente in Geremia dove manca il verdetto di condanna. La parabola si conclude con l’esortazione ad imitare il comportamento del padrone (v. 35) che è presentato con il volto della misericordia ma anche con quello della severità: è severo perché è coerente. Sarà brutale, ma l’insegnamento della parabola è questo.

Ma cosa succede se nel ricorrere a questa parabola per esortare i cristiani alla misericordia si omette il v. 34? A parte il fatto che la frase risulterebbe sgrammaticata, la cosa peggiore è che il messaggio che si riceve si rivela ingannevole perché tralascia un elemento essenziale del racconto: la punizione severa di chi non è stato misericordioso dopo che lui stesso è stato oggetto di misericordia. È fuorviante citare a questo punto l’esortazione di Gesù riportata da Luca “Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste” (Luca6,36) perché è collocata in un contesto diverso da quello della parabola di Matteo e segue un’altra logica che può anche apparire contraria in quanto si interessa del perdono da dare ai nemici. Più o meno su questa stessa linea invece si può leggere la promessa “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Matteo 5,7) in quanto parla della ricompensa riservata ai misericordiosi.  In breve il vangelo ci invita ad imitare l’agire di Dio nelle diverse forme con cui si presenta, senza cedere alle interpretazioni di comodo dettate dalla moda del momento. Andare contro corrente è frutto della coerenza con le convinzioni che dovremmo avere se prendiamo sul serio i messaggi del vangelo.

I pochi esempi di lettura dei testi biblici nel loro contesto letterario hanno dimostrato, penso, la ricchezza e la positività dell’insegnamento che ci trasmettono. Invece di indebolire la fiducia nella Bibbia ci hanno fatto capire che le esperienze di vita guidate dalla fede di uomini vissuti tanto tempo fa portate come esempio da imitare, sono valide anche per noi. A condizione di prenderle sul serio per quello che dicono senza edulcorarle per renderle gradite ai nostri palati.

Misericordia e giustizia

Soprattutto il testo di Matteo (18,21-35) che abbiamo visto pone in modo esplicito il problema che nasce dall’accostamento della misericordia, alla giustizia che ho definito fiscale. Anche in questo caso bisognerebbe chiarire il senso di giustizia nell’uso biblico che non copre la stessa area semantica presente nelle nostre lingue ma assume un valore teologico accentuato: giustizia è compiere la volontà di Dio. Nel racconto di Matteo si tratta della restituzione di denaro e quindi siamo in ambito economico-amministrativo guidato dalle leggi di mercato. Inoltre il denaro in gioco è proprietà del rispettivo padrone che può farne quello che vuole, può anche rinunciarvi benché la legge sia dalla sua parte. Con questo non si dice che l’uso del denaro non debba avere nessun rapporto con la volontà divina, ma solo che il creditore può disporre delle sue proprietà sia rinunciandovi sia donandole a chi vuole.

Sono questi i limiti entro i quali va inquadrato l’insegnamento della parabola che di per sé non può essere esteso alla giustizia riguardante, ad esempio, crimini contro la vita individuale o collettiva che non dovrebbero mai andare in prescrizione. Però è innegabile che sorgano domande a questo riguardo. La misericordia cancella anche la pena prevista dalla legge contro i delinquenti, contro gli assassini, contro gli stupratori, contro gli sfruttatori degli operai, contro i ricchi sfondati che lasciano crepare davanti alle loro porte i poveri Lazzari di ogni tempo? Gesù ha parlato anche di questo e la soluzione prospettata è tutt’altro che accomodante. In altre parole forse provocatorie, usare misericordia significa proclamare un’amnistia generale? Cantare “Chi ha dato ha dato; chi ha avuto ha avuto”? Lanciare il grido finale dei nostri giochi infantili “Liberi tutti”? Sarebbe questo l’insegnamento della Bibbia che noi proclamiamo essere “Parola di Dio”?

È vero che Gesù ha perdonato “Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco” (Luca 19,2-10), il quale però ha smesso di taglieggiare la gente decidendo di dare ai poveri la metà delle sue ricchezze accumulate rubando e di restituire “quattro volte tanto” quanto aveva estorto. È altrettanto vero che Gesù perdona l’adultera ma le impone di non continuare a mettere le corna al marito (Giovanni 8,11). Infine, Paolo di Tarso dopo aver sperimentato personalmente la misericordia di Dio manifestata in modo violento, smette per sempre di imprigionare i cristiani diventando lui stesso un convinto divulgatore della nuova fede (Filippesi 3,6ss.) fino a testimoniarla subendo il martirio. Il perdono è condizionato dalla decisione sincera di abbandonare una vita contraria alla volontà di Dio, qualunque siano le motivazioni che portano alla conversione.

La misericordia divina non è riservata soltanto a chi è mosso dall’amore; sarebbero troppo rari i casi in cui potrebbe manifestarsi. Essa accetta anche la paura dei castighi, l’interesse personale, la delusione per i fallimenti di una vita disordinata, la stanchezza, le debolezze, addirittura le ricadute occasionali. Ma esclude quelle programmate, l’ipocrisia che cerca non il perdono ma la complicità di Dio per continuare a commettere il male. È la denuncia decisa pronunciata da Geremia contro chi si illudeva di corrompere Dio con le offerte sperando che chiudesse un occhio sui delitti che si commettevano (Geremia 7; 26). Dio fa di tutto per essere misericordioso, continua ancora Geremia in un testo che vale la pena di leggere: “Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se trovate un uomo, uno solo che agisca giustamente e cerchi di mantenersi fedele (cioè coerente!) e io le perdonerò, dice il Signore… Hanno indurito la faccia più di una rupe, non vogliono convertirsi” (5,1.3c).

Si potrebbe continuare a lungo citando testi che presentano la disponibilità di Dio al perdono ostacolato però dall’ostinazione dell’uomo a compiere il male che si ritorce a suo danno. Si potrebbe dire che tutta la Bibbia è una difesa appassionata di un Dio alla ricerca dell’uomo che fa di tutto per sfuggire all’abbraccio di chi vuole solo il suo bene. Sentiamo ancora Geremia che interpreta il desiderio segreto che spinge il Dio di Israele a interessarsi del popolo che si è scelto: “Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (3,19).

Però la realtà è molto diversa dal progetto ideale attribuito a Dio. Anche se la causa deve essere addebitata alla volontà dell’uomo, l’interpretazione che tutti i popoli antichi davano delle catastrofi che li colpivano, scaricava sulla divinità la responsabilità di quanto accadeva sia nel (poco…) bene che si riceveva sia nelle disgrazie.  Il popolo di Israele condivideva queste idee anche se le viveva in modo diverso, alla luce della propria fede che faceva dipendere le condizioni di vita dall’osservanza degli impegni assunti con l’alleanza.
(continua)


UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI


UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (1)

I pericoli derivanti da una lettura tematica della Bibbia

Qualche premessa

Quando mi è stato chiesto un contributo per aiutare la riflessione sul tema della misericordia non ho avuto esitazioni e d’istinto ho subito accettato. Avevo già affrontato l’argomento più volte in diverse occasioni e mi ero reso conto che qualcosa non funzionava nel modo di presentare quella che ritengo essere la caratteristica forse più confortante del ritratto di Dio che ci offre la Bibbia. Mi sono sempre trovato di fronte ad una raccolta di citazioni bibliche accompagnate da commenti entusiastici che esaltavano la bontà di Dio senza limiti anche verso i peccatori più incalliti. Niente da eccepire, sono frasi contenute nella Bibbia ebraica, nella Bibbia greca e diventate il tema portante del Nuovo Testamento. Ma non sta qui il problema.

Il problema nasce quando qualcuno raccoglie una lunga serie di citazioni bibliche che attribuiscono a Dio caratteristiche ben diverse da quella risultante dall’elenco “buonista” e ti sbatte in faccia la descrizione di una divinità violenta, crudele, vendicativa, assetata di sangue, che ordina ai suoi fedeli di massacrare i nemici, di sfracellare sulle rocce senza pietà i bambini innocenti. Di fronte a testi di questo tipo la reazione della stragrande maggioranza della gente comune è dapprima di incredulità sembrando impossibile che nella Bibbia siano scritte quelle cose. Quando poi si verifica che ci sono davvero si ha il rifiuto sdegnato di tutta la Bibbia o, nella migliore delle ipotesi, soltanto dell’Antico Testamento per rifugiarsi nelle pagine rasserenanti del Vangelo. E con questo si dimostra una volta di più che si è letto anche il Vangelo con il metodo non corretto seguito nella ricerca dei testi veterotestamentari che ci fanno comodo.

Ho l’impressione che ci si rivolga alla Bibbia con lo stesso atteggiamento con cui si fa la spesa al supermercato. Si compera solo quello che piace, quello che soddisfa i bisogni del momento ignorando tutti gli altri prodotti. Non solo, ma poi si descrive l’emporio come se fosse un negozio specializzato che offre soltanto la merce di proprio gradimento. Come se fosse un’erboristeria, una gelateria, un salone di auto dove si trovano solo prodotti dello stesso genere. Per rimanere nell’immagine proposta, la Bibbia effettivamente contiene di tutto e offre l’opportunità di trovare quello che ci serve. Ma bisogna saper scegliere in modo responsabile con la consapevolezza che l’offerta è più ampia dei nostri interessi immediati.

È molto bella l’attenzione crescente verso la Bibbia, considerata sempre più come il punto di riferimento irrinunciabile per le scelte di vita. Però la tentazione di farne una lettura finalizzata a dimostrare la validità delle proprie idee è forte. Direi irresistibile, visto l’uso che ne è stato fatto in passato e che sembra continuare anche in questi anni.

Dopo i secoli in cui si è preferito mettere da parte i problemi che suscitava la lettura integrale degli scritti su cui si fondava la nostra fede, con il Concilio Vaticano II sembrava aprirsi per la Chiesa cattolica una nuova stagione per i rapporti con la Bibbia. Effettivamente si sono verificati dei cambiamenti sostanziali nell’impostazione degli studi biblici che hanno fatto leggere con una prospettiva nuova i testi considerati sacri. Il cambiamento ha interessato non solo gli studiosi professionisti ma anche l’insieme dei credenti. Dal clima di timore malinteso, che portava all’abbandono della Bibbia, si è passati alla diffusione capillare e multiforme di quei libri che finalmente venivano presentati con l’importanza riconosciuta da tutta la tradizione. Dalla proibizione anche solo del semplice possesso si è arrivati all’obbligo morale di considerarli indispensabili per garantire le basi di una vita cristiana consapevole e coerente.

I progressi in questo senso sono evidenti, ma non hanno ancora portato i cattolici a quella familiarità con la Bibbia auspicata e caldeggiata dal Concilio. I sospetti e le paure alimentate nel corso dei secoli precedenti continuano ad influenzare in modo subdolo il rapporto con dei testi che da una parte esercitano un fascino che va oltre la semplice curiosità, ma dall’altra presentano difficoltà che a volte sembrano insuperabili. Molti avevano iniziato la lettura e lo studio della Bibbia e poi si sono arresi confinandola di nuovo negli scaffali polverosi della biblioteca di casa, senza che vi fosse bisogno delle proibizioni dei tempi passati.

È inutile nasconderlo: la Bibbia è difficile. Le pie scorciatoie inventate per dimostrare il contrario non reggono di fronte all’evidenza delle affermazioni del testo biblico. Purtroppo si tratta di alibi inconsistenti ma che si sono radicati profondamente nella mentalità comune grazie allo zelo di catechisti e predicatori animati certamente da buone intenzioni ma anche di scarsa attenzione al significato delle parole.

Non ho certo la pretesa di dare risposte a tutte le domande che nascono quando si legge con attenzione la Bibbia. Mi limito ad evidenziare alcuni problemi proponendo qualche indicazione per trovare personalmente la soluzione. In altre parole vorrei suggerire un metodo di lettura basato sul testo che ci è stato tramandato, dando importanza alla sua forma letteraria.

 Attenzione ai “luoghi comuni”

Non so quante volte ho dovuto smentire, con grande stupore e incredulità di chi mi ascoltava, il luogo comune che le parabole del vangelo siano facili e comprensibili a tutti. Per fortuna mi bastava leggere il testo del vangelo che ripetutamente afferma il contrario, per smontare quella che potrei chiamare “pia fraus”, per usare una definizione applicata ad un’altra situazione, con lo scopo di presentare in modo gradito al pubblico di oggi l’insegnamento di Gesù tutt’altro che accomodante.

È evidente che non basta leggere il vangelo dove è scritto che gli apostoli non avevano capito la parabola del seminatore, con il commento di Gesù che ribadisce la sua scelta di usare un linguaggio oscuro (Matteo 13,1-35; Marco 4,1-20; Luca 8,4-18). Bisogna spiegare il contesto, far capire le motivazioni di un comportamento anche per noi inspiegabile. A questo punto tutto acquista un significato non solo per gli apostoli ma anche per noi che ci sentiamo coinvolti dalla parola del Maestro. Non è onesto ignorare la difficoltà oggettiva di un testo e non è nemmeno rispettoso della dignità dei lettori moderni, ritenuti incapaci di capire, come se fossero degli eterni bambini da indottrinare. Penso che la stima della Bibbia e la fiducia nei suoi lettori debbano essere le due linee guida per ogni riferimento al testo che consideriamo sacro.

Per venire al nostro tema, vorrei verificare con qualche testo scelto dal vasto repertorio delle citazioni riguardanti la misericordia, se il messaggio che generalmente se ne ricava corrisponde a quello che effettivamente ci comunica la Bibbia. Il metodo della verifica è molto semplice e tutti lo possono applicare senza bisogno di studi particolari. Si tratta solo di leggere i testi nel loro contesto letterario, cioè non fermandosi solo sulla parola “misericordia” ma tenendo conto anche di ciò che la precede e la segue. A questo punto forse nasce qualche domanda, anche imbarazzante, che richiede una spiegazione. E qui devono intervenire gli “esperti” che aiutano ad allargare il contesto all’ambiente storico, culturale, religioso per poter capire che cosa voleva dire chi ha scritto quel testo, che cosa capivano i primi lettori o ascoltatori e che cosa può significare anche per noi oggi.

Può sembrare complicato ma vale la pena di provarci perché darà la soddisfazione di scoprire qualcosa che era sfuggito ad una lettura affrettata. Qualche esempio potrà aiutare e incoraggiare a continuare anche personalmente la ricerca dei messaggi autentici della Bibbia.

 Mettiamoci al lavoro

Incomincerei con un testo celebre, molto citato quando si parla del nostro tema. Si tratta della descrizione che Dio fa di stesso come viene presentata nel racconto del libro dell’Esodo che riferisce la seconda scrittura delle tavole della legge (i dieci comandamenti) avvenuta dopo la distruzione delle prime. Mi rendo conto che già questa ambientazione può creare qualche difficoltà ad un cattolico di formazione “catechistica”. Il testo è quello di Esodo 34,6 “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. Affermazione bellissima e confortante, presente nella Bibbia. Ma proseguiamo nella lettura del versetto seguente “… ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. È questo il vero messaggio che ci propone la Bibbia nel comporre l’identikit di Dio: misericordioso ma esigente, misericordia e castigo. Ci piaccia o non ci piaccia.

Fermare la lettura e l’attenzione sul v. 6 e sulla prima parte del v. 7 corrisponde a quanto si fa spesso con il racconto della prima edizione del decalogo distrutta dallo stesso Mosè che l’ha sostituita con una nuova (stranamente è conosciuta la “prima edizione” mentre la seconda è riportata solo nella Bibbia ed è sconosciuta ai più). Il testo introduce solennemente la proclamazione dei dieci comandamenti (Esodo20,5-6). I due termini in questione si trovano in ordine inverso: castigo e misericordia. Nel v. 5 si presenta “un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano”.

Molti si fermano a questo punto scandalizzati di fronte all’autoritratto attribuito a Dio stesso e rifiutano l’immagine di una divinità vendicativa e per di più contro degli innocenti. Sarebbe una reazione giusta se il testo non continuasse così “ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”. Il senso è evidente. Si tratta del paragone fra due numeri, tre o quattro contro mille. Si afferma che i castighi mandati da Dio sono una piccola cosa di fronte alla sua misericordia, come tre o quattro lo sono di fronte a mille. Quella che ad un primo impatto sembrava una dichiarazione di crudeltà spietata diventa invece l’affermazione più consolante di tutta la Bibbia. Ma bisogna rispettare il testo per quello che dice e capire il senso delle parole.

Anche in questo caso una lettura “selettiva” del testo può portare al fraintendimento del suo significato con risultati devastanti. Il significato del testo si raggiunge soltanto se lo leggiamo nel contesto letterario, cioè nella sua integrità. Dobbiamo accettarlo per quello che è, non per quello che ci fa comodo. Dopo ci chiederemo perché gli antichi si erano fatta questa idea di Dio e i tecnici daranno le informazioni del caso. Dal confronto tra i due testi si vede che coincidono nell’affermare la misericordia di Dio che però viene legata strettamente alla sua severità.

A questo proposito anche nel libro di Ezechiele si affronta questo tema con espressioni identiche, a dimostrazione che il problema creava difficoltà tra il popolo anche in quegli anni. “Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità” (Ezechiele 18,20). E ancora continuando sullo stesso tema: “Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” (18,23).

In questi testi di Ezechiele e in molti altri dello stesso tipo non si trova il termine “misericordia” ma il messaggio che viene comunicato è lo stesso di quello evidenziato nel testo di Esodo: Dio perdona anche le colpe peggiori a patto che il colpevole desista dal suo comportamento malvagio. In altri termini, Dio rispetta la libertà che ha donato all’uomo e accetta le sue scelte ma non come uno spettatore indifferente.

Per usare un linguaggio sportivo potremmo dire che Dio non solo fa il tifo per l’uomo, ma lo allena, lo stimola, gli proibisce determinate cose, gli impone orari e ritmi di vita, gli prepara lo schema del gioco, gli fornisce gli alimenti per la dieta giusta. Tutto ciò non perché lo odia, perché vuole punirlo per qualche colpa  ma perché vuole portarlo a vincere la competizione contro il male ed è contento quando gli può dare il premio che si è conquistato. E non si sostituisce all’uomo perché l’uomo sia e si senta il protagonista di una sfida prima di tutto contro se stesso.

Vista in questa prospettiva la vicenda storica dell’umanità acquista un significato esaltante dove anche le tragedie più sconvolgenti e i fallimenti più clamorosi assumono un valore non in quanto tali ma come preparazione necessaria per il raggiungimento di un traguardo che ripaga ogni sforzo. Il male resterà sempre male, non cambierà mai la sua natura ma può diventare lo strumento che porta al bene assoluto.

Croce e misericordia?

La massima espressione di questa realtà presentata dalla Bibbia nella sua interezza (intendo: Antico e Nuovo Testamento) è Gesù sulla croce: il fallimento totale diventato lo strumento per accedere alla vittoria. Non può esserci risurrezione senza la morte. I due termini sono inseparabili, come lo sono la misericordia e la severità di Dio. Diversamente non riesco a capire l‘affermazione che nella croce si manifesta l’amore supremo di Dio.

Purtroppo i cristiani hanno posto l’accento prevalentemente sul sacrificio, sulla sofferenza, sulla rinuncia, sul dolore presentando queste realtà negative come l’ideale della vita vissuta secondo il vangelo. E abbiamo riempito il calendario di santi e sante che sono stati dichiarati tali “nonostante” (mi sembra di dover dire) abbiano vissuto un vangelo dimezzato. La lettura selettiva dei testi biblici ha portato con sé conseguenze disastrose che possono ripetersi se continuiamo ad  estrarre dalle pagine bibliche soltanto i testi che riteniamo in armonia con le mode correnti facendoli passare come parola di Dio.

L’argomento potrebbe essere sviluppato ampiamente ma ci porterebbe fuori da quanto mi è stato richiesto. E allora rivolgiamoci ai Salmi che sono una miniera traboccante di misericordia. Lo facciamo però con l’occhio attento ad evitare la trappola della lista della spesa. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Il Salmo 146 per esempio, elenca una quantità di interventi divini a favore dei poveri e degli indigenti ed esalta la multiforme bontà di Dio, dopo aver messo in guardia contro l’inaffidabilità degli uomini. È il primo richiamo a prestare attenzione ai lati oscuri della vita. A pensarci bene anche il lungo elenco di bisognosi: oppressi, affamati, prigionieri, ciechi, vittime di cadute, stranieri, orfani e vedove non è che presenti un panorama rasserenante anzi, direi che è piuttosto inquietante. Sono appunto i “miseri” a cui presta attenzione concreta il “cuore” di Dio. Il quale, dopo essersi dimostrato tanto buono con chi lo merita si dimostra altrettanto severo verso chi è la causa dei mali. Ed ecco la conclusione fulminante ”ma sconvolge le vie dei malvagi” (Salmo 146,9c). Tre paroline (in ebraico) che sono il contrappeso necessario per riequilibrare la lunga descrizione della bontà divina. Senza quella frecciata finale gli interventi a favore dei bisognosi avrebbero avuto il tono di una lista presentata allo sportello della pubblica assistenza. La stessa costruzione letteraria si ripete nel Salmo seguente anche se in modo più sintetico (Salmo147,3.6) ma non meno efficace.

È questo il vero volto della misericordia delineato dalla Bibbia che presenta un Dio che se vuole difendere i poveri e gli oppressi deve impedire con ogni mezzo la sopraffazione e la violenza. Ma si obietta che potrebbe evitare che i malvagi portino a termine i loro progetti criminali. Questo però non rispetterebbe la libertà e renderebbe l’uomo un automa che esegue un piano preordinato e di cui non è responsabile. Un intervento di Dio a questo livello sarebbe il vero fallimento del progetto divino mirante alla crescita dell’umanità fino a condividere facendolo proprio il punto di vista di Dio.

Il profeta Geremia ha indicato questo processo di maturazione con un’espressione significativa che sarà assunta da Gesù per definire la sua opera di liberazione dell’uomo dal peccato: la nuova alleanza. Vedere il mondo con gli occhi di Dio, giudicare la vita come la giudica Dio, comportarsi per convinzione secondo il volere di Dio è stato l’atteggiamento di Gesù che lo ha indicato come mèta per tutti i suoi discepoli.
(continua)