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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

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mercoledì 16 marzo 2016

"MISERICORDIA SAMARITANA"


OLTRE LA PARABOLA

                                                  (la “Misericordia samaritana”)

Alcune parabole del vangelo sono entrate così profondamente nel linguaggio comune che anche coloro che hanno abbandonato la pratica religiosa spesso vi fanno riferimento. Buon samaritano, figliol prodigo, pecora smarrita sono diventati degli stereotipi a cui si ricorre senza nemmeno pensarci.
            Tra le persone più interessate ai problemi religiosi la conoscenza delle parabole si spinge oltre il riferimento puramente letterario con il desiderio di coglierne il messaggio e attuarlo nella propria vita. Ma spesso ci si ferma al racconto strettamente inteso senza tenere nella dovuta considerazione il contesto in cui è inserito e dal quale riceve il suo pieno significato.
       Ho avuto occasione di riflettere con un gruppo di amici sulla parabola arcinota del buon samaritano, cercando di inquadrarla nel racconto completo fatto da Luca (10,25-37). La prima osservazione è evidente: La parabola vera e propria inizia al versetto 30 ed è la conclusione di un discorso più ampio ed articolato che si svolge tra Gesù e uno studioso della Torah, la Legge data da Mosè al popolo ebraico a nome di Dio.
       Questo racconto a sua volta è inserito nel capitolo 10 del vangelo di Luca dove si presenta Gesù che invia i discepoli a predicare ed insegna come si devono comportare (10,1-16). Al loro ritorno pieni di gioia per il successo ottenuto, Gesù promette che godranno di una gioia ancora maggiore perché hanno un posto assicurato in paradiso: “i vostri nomi sono scritti nei cieli” (10,20).
       Gesù non soltanto partecipa già di quella stessa gioia – “esultò nello Spirito Santo” (10,21) –  ma afferma di essere lui motivo di gioia per quelli che lo vedono e ascoltano il suo insegnamento (10,23-24).
       Era decisamente troppo per uno studioso abituato a considerare la Torah il centro della propria vita e la cosa più preziosa (Salmo 119,92.97.103). Come poteva sostituirsi alla Legge quel rabbiche non aveva nemmeno frequentato le scuole? A Nazareth era già accaduto qualcosa di simile e si era sfiorata la tragedia (Luca 4,14-30).
       Il “dottore della Legge” non voleva arrivare a tanto. Da intellettuale, pensa di sfidare quel rabbi presuntuoso, sul campo che gli è proprio: la conoscenza della Torah. Sapeva bene che Dio premia coloro che lo amano condividendo con loro la propria vita per sempre. Sapeva che Dio premia allo stesso modo anche quelli che sanno immedesimarsi nei problemi degli altri come se fossero i propri. Forse però questa seconda condizione, così difficile da praticare, era anche difficile da capire.
       “Vediamo un po’ se questo tale che pretende di essere un maestro è capace di rispondere”, deve aver pensato l’esperto della Torah sicuro di poter così smascherare con le sue stesse parole chi si presentava come maestro pur non avendone i titoli. “Si alzò per metterlo alla prova” (10,25). Era un esame pubblico che doveva rivelare a tutti la falsità degli insegnamenti di Gesù.
       “Maestro” (10,25): Luca ci presenta un gioco abilissimo di scambio di ruoli che è fondamentale per comprendere il vero significato della parabola conclusiva. Il “dottore della Legge” si presenta come discepolo che rivolge una domanda a Gesù chiamandolo maestro. Gesù rifiuta questo ruolo e si comporta come un discepolo che fa una domanda. Il dottore ridiventa maestro dimostrando la sua competenza in materia. Gesù come maestro riconosce la correttezza della risposta ma al tempo stesso rende evidente il trabocchetto che gli era stato preparato.
       Se il “dottore” conosceva così bene la risposta corretta perché aveva fatto quella domanda? Era evidente l’intenzione provocatoria di mettere in difficoltà Gesù.
       Altra inversione di ruoli: ad essere in imbarazzo è il dottore che deve inventare una scusa per cercare di rendere plausibile la sua domanda. “Volendo giustificarsi” dice il testo di Luca che introduce così la parabola del samaritano.
      Notiamo che Gesù non infierisce sul provocatore che ha cercato di salvare la faccia cambiando la domanda iniziale, che forse appariva troppo teorica, con una che riguardava l’aspetto operativo. Notiamo ancora che a differenza della prima domanda che aveva già la risposta chiara nella Legge, questa seconda esigeva una precisazione. Infatti secondo la Torah (Levitico 19,18) l’ebreo doveva considerare “prossimo” prima di tutto ogni altro “figlio del suo popolo”, affermazione sulla quale si discuteva e si continua ancora a discutere per capirne il vero significato.
       La risposta di Gesù sembra dunque riconoscere la sensatezza della domanda e ciò poteva attenuare l’imbarazzo del “dottore”. Al tempo stesso però si pone come interpretazione autorevole di un precetto tanto controverso e sulla quale finiranno per convergere con sfumature diverse le spiegazioni date dai rabbini successivi.
       Non commento la parabola in se stessa. Sottolineo soltanto le ultime inversioni di ruoli. La domanda era: “Chi è il prossimo” e Gesù la trasforma in “Chi è stato prossimo”; il “dottore” aveva posto la domanda come discepolo, ora dà lui stesso la risposta come maestro; Gesù passa dal ruolo di indagato per sospetta eresia al ruolo di giudice che decide sulla vita eterna.
       E siamo tornati alla domanda iniziale: “Come si fa ad essere iscritti nel registro di quelli che hanno il paradiso assicurato?”. La risposta di Gesù è chiara: “Non considerare nessuno come un estraneo ma tratta tutti con le stesse attenzioni che usi per te stesso”. Letta nel contesto in cui è inserita, la parabola assume così un’importanza fondamentale. Non è un’esortazione a compiere qualche opera buona ma diventa la condizione essenziale per entrare nella vita eterna.