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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 31 dicembre 2016

LA BIBBIA: USI ED ABUSI


LA BIBBIA E NOI

Come si sa, la Bibbia è una straordinaria raccolta di scritti che riportano le riflessioni sui diversi casi della vita fatte nei secoli passati da uomini appartenenti al popolo di Israele. Le esperienze commentate ricoprono le situazioni più frequenti, così che ogni lettore può trovare qualche caso che presenta forti analogie con quanto sta vivendo. Evidentemente saranno differenti le modalità di realizzazione tra l’episodio biblico e quanto vissuto dal lettore moderno, ma le motivazioni che hanno spinto i protagonisti biblici sono sempre le stesse che muovono l’uomo di ogni tempo.
      Ad esempio, il desiderio smodato della ricchezza con le conseguenze negative che produce è un tema ricorrente nella Bibbia. Le ricchezze ricercate avidamente potranno essere, a seconda dei casi, oggetti di metalli preziosi, possesso di terreni, palazzi, vestiti lussuosi, una vita agiata. L’uomo moderno può avere gli stessi desideri che però identifica in oggetti del tutto sconosciuti agli antichi. Oggi non desideriamo più soltanto la vigna del vicino ma estendiamo l’interesse al possesso di intere regioni. Oggi colleghiamo la felicità della ricchezza a ville miliardarie, allo yacht da crociera, ai conti in banca, agli abiti firmati, alle collezioni di opere d’arte, al controllo dei capitali di grandi imprese, tutte cose che in passato non esistevano se non in forme diverse.
Un lettore attento e responsabile non farà fatica a trovare nelle pagine della Bibbia personaggi, avvenimenti o suggerimenti per vivere sereni e tranquilli che sembrano corrispondere alle proprie aspettative quasi fossero una foto della realtà contemporanea. Penso che tutti abbiamo avuto questa sensazione leggendo certi racconti che sembrano ricavati dalla cronaca (spesso nera) dei nostri quotidiani. A seconda dei casi e dello stato d’animo del lettore, l’analogia tra narrazione biblica e avvenimenti recenti potrà suggerire reazioni differenti.

Riferirsi alla Bibbia con rispetto

Si può trovare una conferma della bontà delle proprie scelte oppure la condanna di comportamenti giudicati in modo severo dagli autori biblici. A volte una frase del testo biblico può sembrare una sintesi folgorante del proprio ideale di vita ed essere considerata come un programma che si vuole realizzare. Spesso si ricorre ai testi biblici in conferenze o in scritti anche non di carattere religioso per sostenere la validità delle proprie argomentazioni.
In linea di massima questi riferimenti alla Bibbia sono segno della considerazione in cui è tenuta nella nostra cultura, anche non dichiaratamente religiosa e quindi sono apprezzabili. Se un giovane sceglie una frase del vangelo per presentare agli amici l’annuncio della sua ordinazione sacerdotale non vuole certamente far credere che l’evangelista pensasse proprio a lui quando scriveva quelle parole dette da Gesù in un contesto diverso. La citazione del vangelo viene intesa da tutti come l’impegno che il nuovo sacerdote si assume nell’impostare la propria vita.
Così quando si accompagna l’annuncio della morte di una persona cara con una frase del vangelo si vuole solo esprimere la propria fede nella risurrezione e lo si fa con le parole che hanno sostenuto e alimentato la speranza del defunto e dei suoi familiari. A nessuno viene in mente di controllare la citazione per verificare se corrisponda o no al significato del testo originale.

Quando non si rispetta la Bibbia

Le cose cambiano quando si riportano frasi della Bibbia per sostenere le proprie idee e dimostrare la validità delle argomentazioni basandosi sull’autorità del testo considerato sacro. Si parte dal presupposto che la Bibbia è “Parola di Dio” e quindi deve esprimere sempre la verità. Perciò, se il testo biblico afferma le cose che dico io, il mio insegnamento o comunque le mie affermazioni sono vere e indiscutibili. Forse non lo si dice in modo così sfacciato, ma chi parla o scrive citando versetti biblici e i lettori o ascoltatori condividono questa convinzione di fondo.
In questi casi è necessario rispettare rigorosamente la corrispondenza non solo delle singole parole ma del significato globale delle frasi tra quello che si dice o scrive e quello che è scritto realmente nella Bibbia. Si corre il rischio di attribuire ai testi biblici affermazioni che sono solo frutto della fantasia di chi li riporta in modo non corretto. A volte si cade in questa trappola spinti dal desiderio di presentare solo gli aspetti belli e gradevoli di un testo che invece contiene anche elementi ostici ai nostri gusti e alla nostra sensibilità e che vanno comunque spiegati ma non eliminati.
Qualche volta si citano delle parole che si trovano effettivamente nella Bibbia ma non esprimono il suo insegnamento, sono nella Bibbia ma non della Bibbia. Un esempio per chiarire l’idea. In tre Salmi si trova l’affermazione: “Non c’è Dio” (Salmi 10,4; 14,1; 53,1). Materialmente sono parole che si trovano nel testo ma non dicono il pensiero del testo che infatti le attribuisce allo stolto. Ma un autore italiano contemporaneo ha scritto un intero libro per dimostrare che nell’Antico Testamento non si parla di Dio.
Dire che “Gesù bestemmiava” può risultare sorprendente e scandaloso per molti, eppure è scritto nel vangelo di Marco (14,64) che mette l’accusa sulla bocca del sommo sacerdote. Anche in questo caso le parole sono nel vangelo ma non corrispondono all’insegnamento del vangelo. E si potrebbe continuare ricordando altri casi di citazioni distorte, a volte intenzionalmente ma spesso per ignoranza. Il risultato è comunque lo stesso: attribuire alla Bibbia ciò che non dice ed esponendola a smentite che non la riguardano ma che fanno sorgere dei dubbi sulla sua credibilità.

Le citazioni bibliche “ad orecchio”

Il problema diventa più serio quando è la liturgia a trattare i testi biblici con una certa
disinvoltura, andando, per così dire, ad orecchio. Non dubito affatto delle buone intenzioni delle anime pie che hanno introdotto versetti biblici qua e là sotto forma di antifone varie senza prestare attenzione al senso che hanno nel contesto di origine. Bisogna anche riconoscere che spesso queste scelte sono favorite dalla bellezza e dalla poesia dei testi citati, per di più in latino che esercitava tutto il fascino della sua capacità espressiva. Aggiungiamo l’incanto di certe melodie gregoriane, e la ricetta ha tutti gli ingredienti per essere accolta con applausi.
Confesso che è difficile resistere alla suggestione del “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum” con le strofe struggenti che vi sono state aggiunte per formare il canto tipico dell’Avvento. Pensate solo a quella cascata di note che porta fino al fondo dell’abisso e che descrive sonoramente le parole “et cecidimus”. L’abbinamento è perfetto e giustifica l’invocazione al Salvatore perché scenda dal cielo a portare tra gli uomini quella pace che non sono stati capaci di costruire. Non c’era preghiera più adatta al tempo dedicato all’attesa del Natale di Gesù. Infatti la liturgia cattolica assegna questa supplica accorata come antifona d’ingresso alla quarta domenica di Avvento.
Ma se ci chiediamo qual è il significato di quelle parole nel libro di Isaia da cui sono tratte, corriamo il rischio di perdere un po’ di poesia ma soprattutto di perdere fiducia nella Bibbia che nel testo citato (Isaia 45,8) non si riferisce affatto al messia futuro bensì, più prosasticamente, alla
pioggia. Il contesto del capitolo 45 è la rivendicazione che il profeta attribuisce al Dio di Israele, di essere l’unico ad aver fatto ogni cosa esistente e di poter guidare la storia a proprio piacimento. In particolare al v. 7 è detto chiaramente: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo”. Anche la pioggia che fa fiorire il deserto, obbedisce agli ordini di Dio. Come si vede la descrizione è coerente e non lascia spazio ad altre interpretazioni.
Forse la poesia di un altro testo ha giocato un brutto scherzo a chi ha scelto come antifona d’ingresso alla liturgia eucaristica della seconda domenica dopo Natale il testo del libro della Sapienza (18,14-15a). “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale…”. L’atmosfera densa di attesa creata dal versetto 14 si scioglie con l’introduzione del “logos” onnipotente che lascia il trono di Dio. Per un cristiano queste parole richiamano spontaneamente il mistero del Verbo di Dio che si fa carne, come è scritto nel prologo del vangelo di Giovanni. Tutto coincide alla lettera e quindi… Ma nel testo greco del libro della Sapienza il versetto continua definendo il “logos” “guerriero implacabile” che non scende pacificamente dal trono celeste per dimorare tra gli uomini, ma “si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra” (18,15b-16).
Questo dice il libro della Sapienza, che descrive con enfasi drammatica la morte dei primogeniti
egiziani e non si riferisce affatto al mistero del nostro Natale. È innegabile la tentazione di forzare il testo in prospettiva messianica ma è un risultato che si ottiene solo fermandosi a metà versetto e addolcendo il violento “si lanciò” con un innocuo “venne”. Purtroppo l’abitudine di mutilare i testi scegliendo solo quello che fa comodo si è diffusa a macchia d’olio e ha contaminato non solo la liturgia ma anche i testi di teologia e i documenti del magistero. È quello che mi piace chiamare “metodo dello spiedino” che infilza una dietro l’altra citazioni di mezzi versetti comunicando così una “mezza verità” e attribuendola alla Bibbia.

Sono tentato di abbandonare il riferimento allo spiedino per passare alla “raccolta differenziata”, perché con questo sistema si raccolgono soltanto gli scarti della Bibbia ma si perde una delle caratteristiche principali della Bibbia: la sua unità nella diversità.