Penso
di non essere stato l’unico ad essere piacevolmente sorpreso nel sentire
pronunciare parole come “pace” e “dialogo” in una città come Il Cairo a pochi
giorni di distanza da atti di terrorismo che l’hanno colpita causando decine di
morti e di feriti. È accaduto durante la breve visita del papa in Egitto alla
fine di aprile. Sentirle dalla bocca del papa non meraviglia. Francesco ci ha
abituati a
questi discorsi che possiamo considerare scontati. Ma sentirle dette
dal rappresentante di una grande fetta del mondo musulmano e da un capo di
Stato proveniente dagli alti gradi dell’esercito, fa un certo effetto. Non le
hanno dette a tutto tondo, è vero, però mi è sembrato di cogliere un desiderio
sincero di superare gli ostacoli che impediscono ancora la realizzazione di
quello che continua ad essere un bel sogno, come dimostrato dagli attentati
avvenuti nei giorni immediatamente successivi in paesi vicini.
La
sensazione che qualcosa si sta muovendo verso la pace e il dialogo è aumentata
durante l’incontro del papa di Roma con quello copto ortodosso del Cairo.
L’insistenza nel sottolineare ciò che unisce, mettendo in secondo piano i
motivi di divisione, fa sperare che anche le dispute teologiche vengano
ridimensionate quando si confrontano con la dura realtà in cui vivono le
rispettive chiese.
L’Egitto
che ha ospitato questi incontri ha portato in modo naturale a riferirsi alla
Bibbia che dedica molte pagine alle vicende che si sono svolte in quella terra
nei secoli passati. Era inevitabile che i riferimenti mettessero in luce
soltanto episodi o affermazioni positive confezionando così uno “spiedino
buonista”. È stata ricordata più volte l’ospitalità offerta dall’Egitto agli
stranieri, in particolare alla sacra Famiglia. È stato richiamato l’aiuto
economico fornito dagli egiziani ai popoli colpiti dalla carestia, con l’invito
a ripeterlo anche nelle situazioni attuali. Si è ricordato il monte Sinai in
particolare per il comandamento “Non uccidere”.
Ma –
giustamente – non si è fatto cenno ai lavori forzati e all’uccisione dei
bambini ebrei, né alle cosiddette “piaghe”, né all’esercito del faraone
sommerso dalle acque del Mar Rosso, né all’ostilità di Geremia e di altri che
consideravano il grande impero sul Nilo poco affidabile. Sarebbe stato uno
“spiedino cattivo”, decisamente fuori posto nel clima che si voleva mantenere.
Il
dialogo secondo papa Francesco
Al di
là dei riferimenti espliciti ai libri sacri ebreo-cristiani mi pare che sia
stata evidenziata una sintonia profonda con l’insegnamento biblico nella
presentazione che papa Francesco ha fatto riguardante il dialogo.
“Tre orientamenti fondamentali, se ben
coniugati, possono aiutare il dialogo: il dovere dell’identità, il coraggio
dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché
non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene
per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da
me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma
accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di
ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il
dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per
realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere
pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione”.
Sono
le caratteristiche della preghiera che si desumono dalla parola ebraica tefillah, derivata da un verbo coniugato
nella forma riflessiva-reciproca che significa “giudicare”. Ne ho parlato in un
post precedente ma è utile ritornarci sopra. La preghiera deve nascere dalla
conoscenza di se stessi, deve aprirsi all’accettazione dell’altro, deve essere
sincera. Non è un’introspezione psicanalitica ma confronto con un Altro con il
quale non si può barare, confronto con Uno con il quale si può anche discutere
se sia stato fedele nel mantenere le promesse fatte, ma che chiede anche all’interlocutore
di verificare la propria coerenza nel mantenere gli impegni presi.
L’analogia con la struttura della preghiera permette
di vedere qualsiasi dialogo da un punto di vista quasi religioso, fondandolo
sul riconoscimento della dignità degli individui considerati tutti figli di un
unico Padre e aventi gli stessi diritti. Le diversità innegabili sono una
ricchezza di tutti se vengono considerate come complementari nella loro varietà
e non contrapposte. Solo Dio possiede tutta la verità mentre agli uomini è dato
di conoscerne solo qualche aspetto. Ecco allora la necessità di mettere a
disposizione di tutti le acquisizioni dei singoli per raggiungere una visione
d’insieme più vantaggiosa per tutti.
Sono riflessioni che hanno portato la società
laica ad attuare quella che chiamiamo “globalizzazione”. Se applicata – come
spesso avviene – in modo egoistico, produce effetti devastanti ma se realizzata
in modo responsabile può risolvere molte situazioni difficili. Proprio la
ricerca scientifica seria dimostra l’importanza dell’apporto di tanti studiosi
e di discipline diverse per raggiungere dei risultati utili a tutta l’umanità.
Cosa impossibile se manca un vero dialogo tra scienziati e tra le istituzioni.
Anche la teologia, che ha per statuto lo studio di
quello che definisce un mistero inspiegabile, è caduta nella trappola
consistente nel rifiuto del dialogo. Ogni scuola teologica difendeva con
accanimento le proprie idee su Dio ritenendole giuste e definendo eretiche
quelle diverse. Nessuna chiesa è stata esente da questa visione riduttiva della
verità. Il guaio più grosso è stato quando si è legata la propria verità a
qualche elemento concreto, un abito, un colore, un cibo, un gesto, un modo di
vivere fino a condannare chi aveva altre abitudini. Sono queste le cause che
ostacolano a volte un dialogo tra religioni diverse e impediscono il dialogo
ecumenico.
Quello che si è visto in Egitto alla fine di
aprile, almeno sul piano dell’ecumenismo, è stato presentato come la cima
emergente di un iceberg, cioè come un primo risultato positivo reso possibile
da tutto un lavoro nascosto ai più, svolto con tanta pazienza reciproca dalle
parti interessate. Si intravede il desiderio diffuso di superare incomprensioni
radicate da secoli, costruite a volte su interessi personali, su rivalità
mascherate, sul desiderio di ricchezza o di potere.
È di queste ore la notizia dell’accordo tra le
parti in guerra per il governo in Libia, raggiunto anche grazie alla mediazione
dell’Egitto. Sarà un caso, ma è bello pensare che questo passo verso la pace in
un paese tanto vicino a noi sia in qualche misura dovuto anche all’incontro del
Cairo. Ed è auspicabile che i buoni propositi emersi nei discorsi di papa
Francesco e delle altre autorità religiose e politiche intervenute abbiano modo
di concretizzarsi in soluzioni pacifiche raggiunte attraverso un dialogo aperto
e sincero.
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